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Il fascino irresistibile della March Madness

La storia dell’evento universitario americano capace di coinvolgere ogni anno l’intera nazione, con un’aria da ultima spiaggia, da occasione irripetibile

La gioia dei giocatori della Furman University dopo il successo su Virginia di giovedì scorso
(Keystone)
21 marzo 2023
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Mancano pochi secondi alla fine. Kihei Clark, giocatore dell’Università della Virginia, ha la palla. Si imbottiglia in un raddoppio, sotto al proprio canestro. Preso dal panico, scaglia la palla lontano, cercando di far passare i secondi. Il piano, però, fallisce miseramente. Il lancio viene intercettato da un avversario – giocatore dell’Università di Furman – poco dopo la linea di metà campo. Un passaggio orizzontale a un compagno, che tira subito da tre. La palla entra, facendo schioccare la retina. E’ il canestro del sorpasso. Anzi, della vittoria, perché per Virginia non c’è più tempo. La panchina di Furman, folle di gioia, entra in campo a festeggiare; quelli di Virginia, imbambolati sul parquet, iniziano a piangere. Sembra la scena di una pellicola sportiva americana. Di quelle melense, dove gli allenatori sono maestri severi che insegnano la vita, e i tifosi guardano le partite con le mani giunte in preghiera davanti alla bocca.

E invece no, siamo in diretta nazionale. Direttamente dal palasport di Orlando, in Florida. Welcome to March – benvenuti a Marzo – urla il telecronista, in visibilio. Nemmeno il tempo di dirlo e su twitter, la sfera pubblica virtuale su cui vengono vissuti gli eventi sportivi, esplodono i commenti. La stagione di Virginia, che solo quattro anni fa vinse il campionato, finisce qui. Quella di Furman, immensamente sfavorita dal pronostico, continuerà per almeno un’altra partita. Nell’incredulità di tutti, vincitori compresi.

La formula

La chiamano March Madness, la follia di marzo. Tre settimane di un frenetico, imprevedibile, caotico tabellone a eliminazione diretta in cui si sfidano le squadre delle università degli Stati Uniti. Ci sono due tornei, uno maschile e uno femminile. In ciascuno si parte con 64 squadre: metà qualificatesi automaticamente vincendo il proprio girone. L’altra metà invitata, letteralmente, da una commissione apposita. Che si rinchiude in una stanza di albergo per una settimana, sommersa di appunti e numeri, e decide a tavolino chi merita un posto nel tabellone, seguendo criteri che ancora oggi rimangono piuttosto controversi. Delle squadre iniziali, solo 4 arriveranno all’atto finale, che per il torneo maschile è fissato a Houston. Dove in uno stadio da 70mila posti – adattato alla pallacanestro per l’occasione – si giocheranno le semifinali sabato 1° aprile, e la finalissima due giorni dopo. Come se si disputasse una partita di basket a San Siro, con tutti i biglietti esauriti da oltre un anno. Eppure l’atto finale, per quanto atteso, rimane solo una parte di un organismo molto più complesso, che include tutto quanto è successo nelle settimane precedenti. Un coacervo di sorprese, delusioni, partite emozionanti ed eroi spuntati dal nulla, che dà forma a uno dei fenomeni sociali più coinvolgenti degli Stati Uniti.

Picco della carriera

In uno stupendo libro scritto da John Feinstein, giocatori come quelli di Furman University vengono descritti come gli ultimi amatori. Rappresentanti dell’ultima frontiera del dilettantismo, in un mondo in cui interessi economici, aspirazioni di carriera e istruzione universitaria si incrociano in maniera complessa, e non sempre limpida. E amatori, del resto, molti giocatori universitari lo sono davvero. Il basket regala loro vagoni di notorietà tra i compagni di classe, oltre a una borsa di studio, una modesta diaria, e un po’ di comprensione agli esami. Nessuno percepisce un salario. E alcuni – i cosiddetti walk-on – fanno parte della squadra solo per far numero in allenamento, facendosi carico della retta universitaria a spese proprie. In un contesto del genere, lo sport rimane qualcosa di più complesso di un lavoro: è divertimento, cameratismo, adrenalina, ascesa sociale, e pure antidoto alla solitudine. In certi momenti diventa pure una scocciatura, come quando bisogna presentarsi in palestra alle sei del mattino, in pieno inverno, per poi andare a lezione durante il giorno. E anche se le strutture sportive sono sempre di ottimo livello, per la maggior parte dei giocatori il professionismo sportivo non sarà un’opzione percorribile dopo la laurea, nemmeno nel sottobosco dei campionati europei e asiatici. Ancora meno arriveranno nella NBA, la massima lega professionistica americana. E così, la prospettiva temporale si schiaccia inevitabilmente sul presente: per molti il campionato universitario resterà il picco della carriera, il livello più alto a cui mai giocheranno. Facendo sì che ogni momento venga vissuto con la massima intensità. Come qualcosa che finirà presto.

Contro ogni pronostico

E’ proprio questa aria da ultima spiaggia, da occasione irripetibile, che rende la March Madness un evento magnetico. Soprattutto nei primi due turni, quando si assiste a scontri tra personaggi le cui storie non si incontreranno mai più. Sono momenti che richiamano la retorica di Davide contro Golia, o il romanticismo da Coppa d’Inghilterra che ben conoscono gli appassionati di calcio. Squadre composte in larga parte da futuri professionisti – quelli tradizionalmente vantate da atenei come Duke, Kentucky, North Carolina, Kansas – che devono affrontare l’ardore agonistico di avversari incredibilmente più bassi, più scarsi, più lenti. Se giocate dieci volte, queste sfide finirebbero con vittorie sproporzionate dei favoriti. Ma sul formato della partita secca, i colpi di scena accadono. Come successo tra Virginia e Furman. E come successo il giorno dopo, quando Purdue University, testa di serie n.1, è stata infilzata dall’oscura Fairleigh Dickinson in ciò che rimarrà uno dei più grandi ribaltoni della storia del torneo. Da una parte un’università di grande tradizione e forte del gigantesco Zach Edey, 2 metri e 23 di statura e un futuro certo nella NBA. Dall’altra un manipolo di giocatori con l’altezza media più bassa del campionato, il cui più alto non arrivava a 2 metri. Dato incredibile, per i parametri del basket. E’ finita nella maniera più impensabile: con Purdue in stato di panico per tutta la partita, incapace di punire la marcatura tripla sul proprio gigante; e Fairleigh Dickinson, spinta dal destino, a difendere il risicato vantaggio fino alla fine, nell’incredulità generale dei presenti. Il crollo dei favoriti ha incarnato uno dei motivi più classici della March Madness, in cui qualunque spettatore si identifica sempre volentieri: il momento catartico in cui un manipolo di sconosciuti sbuca dal nulla e si prende la gloria, come quando Cenerentola si riscopre protagonista del ballo. E proprio in onore alla favola di Walt Disney, le squadre che sovvertono i pronostici sono chiamate comunemente Cinderellas, in quello che è uno dei termini più popolari del gergo del torneo.

Fenomeno sociale

Ma la febbre collettiva alla March Madness non si limita al gusto per i colpi di scena. In un Paese sconfinato e con una forte mobilità geografica, le università sono un potente collante che lega le persone al territorio. Non solo chi ci ha effettivamente studiato, ma anche chi è cresciuto nei dintorni. E così, per le persone comuni, la March Madness rimane un modo privilegiato per riscoprire le proprie radici, e farle conoscere agli altri. “Per chi fai il tifo?”, chiesto in una mattina di marzo davanti alla macchina del caffè, non è solo una domanda di rito; può essere il punto di inizio di una conversazione profonda, a volte pure di un amicizia. Allo stesso modo, ogni partita diventa una scusa per una rimpatriata, all’insegna del tifo e dalla nostalgia. Soprattutto in metropoli come Chicago, New York, Philadelphia, cosparse di bar dedicati a università specifiche – specie di fan club non ufficiali – che trasmettono le partite tra muri ricoperti di bandiere, trasformandosi in un luogo di ritrovo per generazioni di ex studenti. E quando la fede sportiva non è coinvolta, ci pensa l’usanza del bracket challenge a far schierare la gente. In una sorta di maxi-schedina del totocalcio, migliaia di persone compilano la propria versione del tabellone del torneo, in cui indicano le loro previsioni per chi passerà ogni turno, fino alla vincitrice finale. Ci si sfida tra amici, colleghi, sconosciuti, a volte con sostanziosi montepremi in palio. Proprio per questo, capita di assistere a sceneggiate melodrammatiche da parte di spettatori teoricamente neutrali: giubilo per le previsioni azzeccate; e più spesso disperazione per quelle sbagliate, che nella natura sequenziale del tabellone spesso pregiudicano i pronostici di tutti i turni successivi. Espn, il principale sito sportivo americano, mette in palio 75’000 dollari da dividere tra i vincitori. Nella storia del concorso, però, nessuno è mai riuscito a compilare un tabellone perfetto – la cui probabilità è una su oltre 120 miliardi. Quasi come quella che Fairleigh Dickinson battesse Purdue.

Un po’ di cifre

A smuovere flussi di denaro, però, non sono solo le puntate sui pronostici. Oltre che un momento di esaltazione collettiva, la March Madness è infatti una formidabile fonte di introiti. Il contratto televisivo con il colosso televisivo Cbs, valido fino al 2032, porta alla Ncaa, l’associazione dei dipartimenti sportivi delle università, quasi 1 miliardo di dollari all’anno. Solo le Olimpiadi hanno un accordo così a lungo termine. Mentre andare a vedere le semifinali, nonostante la capienza immensa dello stadio, rimane un privilegio per pochi fortunati, sorteggiati a un’apposita lotteria. Per chi vuole avventurarsi sul mercato secondario, il biglietto più economico, dall’anello più alto, costa 500 dollari, che però non include il binocolo necessario per distinguere i giocatori da quelle distanze. Un biglietto al primo anello parte invece da 4’000. Se si considerano gli incassi dei turni precedenti, emerge dunque un contrasto spietato tra la paurosa rendita finanziaria dell’evento e lo status dilettantistico che la NCAA impone ai giocatori. Che beneficiano sì di borse di studio ed esenzioni finanziarie, ma non godono della redistribuzione dell’indotto generato dal proprio lavoro, né in termini di salari né di diritti di immagine. Solo l’anno scorso c’è stato un primo, storico passo avanti, dopo che la Corte Suprema degli Usa ha costretto la Ncaa a garantire ai giocatori il permesso di firmare contratti di sponsorizzazione con i marchi che gravitano attorno al torneo, tra cui multinazionali come Nike e Gatorade. Ma la netta sproporzione tra i guadagni degli organizzatori, sontuosi, e quelli degli attori, sostanzialmente inesistenti, rimane tutt’oggi una questione estremamente spinosa. Alla luce di tutto, è sorprendente che un evento del genere non abbia una portata più globale.

E fuori dagli Usa?

Dei quattro sport americani, il basket quello con più seguito internazionale. Una tendenza che si riflette nel peso sempre crescente dei giocatori stranieri nella NBA, e pure nelle strategie di reclutamento delle università americane, che spesso vanno a pescare i propri atleti all’estero – soprattutto in Europa e Africa. Eppure, la March Madness rimane qualcosa di squisitamente americano. I giornalisti stranieri accreditati alle partite sono rari, e spesso percepiti con diffidenza. E il marketing della Ncaa fuori dagli Usa è virtualmente inesistente, a fronte dell’aggressività con cui la Nba cerca di espandere le proprie frontiere. E così, per chi vive in Europa, il basket universitario rimane un ambito di nicchia: capillarmente seguito da un zoccolo duro di pochi, devotissimi seguaci; ma trattato con indifferenza dai media, e conosciuto solo superficialmente dagli appassionati generici. Esattamente al contrario di quanto accade in Usa. Le partite restano però a portata di clic: un modico abbonamento a Espn player, una connessione internet, un po’ di caffè per gestire fuso orario, e le ultime due settimane di torneo sono ancora tutte da godere. Lo spettacolo finirà presto. Ma la meta, per chi si innamora della follia di marzo, resta sempre e comunque il viaggio.

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