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Analisi della violenza giovanile, tra malessere ed emulazione

Diversi episodi nel Locarnese. Le chiavi di lettura in un’intervista con Loredana Guscetti, operatrice sociale che lavora sul territorio

La violenza è sempre l’espressione di qualcosa che mangia dentro
(Ti-Press)
27 maggio 2022
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Tra il 2021 e il 2022 diversi episodi di violenza fra giovani sono stati riportati dalla cronaca giornalistica. A questi casi, di cui si è saputo perché c’è stata denuncia e conseguente inchiesta, se ne sommano altri rimasti sommersi. Di questi v’è traccia in alcune testimonianze di persone che, direttamente o meno, li hanno subiti, ma che tuttavia hanno preferito non denunciare. Una minoranza della società giovane – non vogliamo e non sarebbe corretto generalizzare – sembra esprimersi attraverso l’aggressività e la violenza, un fenomeno da non sottovalutare poiché evidente sintomo di qualcos’altro, di un malessere – individuale e sociale – di complessa interpretazione.

Senza presunzione di esaustività e consapevoli di ampiezza e sfaccettature della tematica, abbiamo chiesto un parere a chi con i giovani ci lavora da alcuni anni e che, dall’inizio dello scorso gennaio, guida la squadra di tre operatori di strada per il Progetto di prossimità per il Locarnese della Fondazione il Gabbiano (coinvolti 13 Comuni del comprensorio). La fascia d’età cui il progetto si orienta è quella dai 12/13 anni ai 30, secondo la Legge giovani. La nostra interlocutrice è Loredana Guscetti, operatrice sociale che, sempre nel Locarnese, da tre anni lavora anche al progetto Midada – sotto l’egida del Gabbiano – che sostiene i giovani adulti nella prospettiva di un reinserimento socioprofessionale.

«In città, abbiamo iniziato anzitempo con il monitoraggio del territorio, ci è stato richiesto perché era un’emergenza» collegata alla serie di zuffe culminata a fine 2021 con il pestaggio del 18enne nella rotonda. Con il passare dei mesi la lista degli episodi si è allungata: ultimo in ordine di tempo quello avvenuto alla stazione Ffs di Muralto venerdì 20 maggio. La squadra di operatori è sulla strada da sei mesi e dopo «una prima fase di mappatura dei luoghi di ritrovo – un lavoro che in realtà non finisce mai perché c’è sempre un grande movimento –, da alcune settimane siamo entrati nella fase cruciale della presa di contatto col territorio, ovvero farci conoscere e riconoscere», introduce Loredana. Se nei primi tempi gli operatori erano a piedi, ora dispongono del "furgo-salotto", uno spazio accogliente con divanetti, tavolino, giochi. Soprattutto il salottino a cielo aperto diventa luogo in cui ritrovarsi, parlare ed essere ascoltati in maniera attiva: «Con i giovani va instaurato un rapporto di fiducia, da costruire passo dopo passo e coltivare, ma per farlo ci vuole tempo».

Finora con situazioni violente o potenzialmente tali gli operatori non sono stati confrontati, benché «sia un fenomeno molto tematizzato dai ragazzi. Sia nelle discussioni e nei confronti diretti, sia sui social media, canali in cui siamo attivi, dove i commenti relativi agli episodi di cronaca degli ultimi mesi non sono mancati». A emergere è un sentimento di sconsolazione, per cui una maggioranza trova ingiusto che a causa di pochi facinorosi ci debbano rimettere tutti.

Riflettendo sul fenomeno della violenza come linguaggio, espressione di un malessere e quindi sintomo di un disagio, l’operatrice sociale ipotizza che una delle ragioni possa risiedere nella «frustrazione, acuitasi in seguito alle misure di confinamento dovute alla pandemia. Naturalmente gli atti di violenza non sono giustificabili. In questi casi è fondamentale riuscire a capire come imparare a gestire la rabbia incanalandola in attività costruttive. La frustrazione può anche avere origine nella società stessa, che richiede di essere sempre più performanti, dare continui risultati, nonostante un contesto e un futuro incerti». Insomma, richiede senza dare, senza pensare alla prospettiva dei ragazzi e alle loro esigenze. Una sorta di "disinteresse" degli adulti nei confronti dei giovani lo si è constatato per esempio nelle decisioni di confinamento e restrizioni durante il Covid, torna a ribadire l’intervistata: «È molto probabile che l’ondata degli effetti di quei mesi di chiusura si farà sentire sul lungo termine, con esiti che vanno dall’isolamento all’aggressività». Un’ulteriore motivazione di alcune derive, a parere della nostra interlocutrice, potrebbe essere «non sapere cosa sia il divertimento sano e per questo è necessario mettere a disposizione dei giovani spazi e luoghi che possono "costruire" da soli».

Ci addentriamo quindi ulteriormente nel tema della violenza, richiamando all’attenzione di Loredana il fenomeno della sua banalizzazione, per cui motivazioni futili e in larga parte ricercate innescano una risposta fisica aggressiva. «Le questioni, a mio avviso, sono due. La banalizzazione e la spettacolarizzazione».

Certa musica e letteratura, certi prodotti cinematografici e televisivi – fra gli altri – narrano e rappresentano la violenza in maniera mitizzata, valorizzandola. Se nel pubblico che ne fruisce, in special modo quello giovane, non ci sono gli strumenti necessari per elaborarla è facile che venga presa a modello. La rappresentazione "positiva" di personaggi violenti fa quindi presa su taluni che ne assumono gli atteggiamenti. Modelli su cui si costruisce la propria identità e fra gli effetti è comune imbattersi in gruppi che riprendono le proprie risse e poi condividono i video tramite social, come un’impresa degna di nota. Quindi un fenomeno a doppio taglio che potrebbe anche essere la chiave di lettura di un’aggressività sempre più banalizzata. Naturalmente questa assimilazione è molto più complessa di come descritta, poiché entrano in gioco molteplici fattori che riguardano le persone e la loro storia, il loro ambiente.

Da analizzare pure il ruolo dei media: «Tematizzare la violenza giovanile a livello mediatico è senz’altro importante, la questione è capire come va fatto e con che frequenza, affinché non si cada nelle trappole dell’emulazione da un lato o del fattore "visibilità" degli aggressori dall’altro. Un certo tipo di notizie può essere controproducente», chiosa, contribuendo ad alimentare un immaginario spesso generalizzato e carico di preconcetti di una gioventù allo sbando.

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