Parola alle difese nel terzo giorno del processo per reati patrimoniali in corso alle Assise correzionali di Lugano. Sentenza prevista il 22 dicembre
«Una gravissima violazione del principio di celerità». Quasi un mantra, quello riecheggiato oggi alle Assise correzionali di Lugano, durante la terza giornata processuale del procedimento che vede alla sbarra cinque imputati – uno dei quali assente – accusati di reati patrimoniali. Un assaggio lo si è avuto già il giorno precedente, quando ha preso parola il primo degli avvocati difensori Yasar Ravi. E la violazione del principio di celerità è stata il cavallo di battaglia di tutti i legali intervenuti.
L’arringa più attesa era forse quella di Michele Rusca, che difende l’imputato principale: il 53enne direttore della società di gestione patrimoniale luganese i cui clienti sarebbero stati danneggiati per oltre 13 milioni di franchi complessivamente. «Non è qui presente non perché rifiuta le proprie responsabilità o perché teme una pena draconiana – ha precisato l’avvocato –. Non se la sente di fare un volo a ritroso di tredici anni e di immergersi in un vissuto che per lui è ormai superato. Dal 2008 è venuto in Svizzera solo saltuariamente, qualche giorno al mese. La famiglia è negli Stati Uniti: non è fuggito, ma prevedeva già da tempo di trasferirsi lì e la sua attività nella società era diventata ormai ristretta». Nessuna fuga dunque, e secondo la difesa non vi sarebbero nemmeno gli estremi per una condanna piena così come chiesto dalla procuratrice pubblica Anna Fumagalli. «L’atto d’accusa sembra far risalire i reati di amministrazione infedele e il danno finanziario alle retrocessioni – per Rusca –, ma queste erano una pratica legittima e autorizzata dai mandatari oltre che estremamente ricorrente in quegli anni. Almeno in parte queste retrocessioni spettavano al mio assistito».
L’avvocato ha chiesto che il 53enne venga ritenuto colpevole solo di falsità in documenti. Tuttavia, in via subordinata, qualora venisse condannato anche per gli altri capi d’accusa, «per la commisurazione della pena bisogna tener conto della crassa violazione del principio di celerità, siamo vicini alla prescrizione di quasi tutti i reati. È un caso fra i più gravi che si siano visti per quanto riguarda la violazione di questo principio». «È il triste epilogo di una vicenda giudiziaria che ci accompagna ormai da tredici anni» ha detto invece l’avvocato Nadir Guglielmoni, ricordando la «carrellata di ben cinque magistrati (che si sono occupati dell’inchiesta, ndr) e tutti, chi più chi meno, hanno maltrattato il principio di celerità» e il fatto che nel frattempo uno degli imputati sia persino deceduto.
Guglielmoni difende l’unica donna, una 56enne italiana che si occupava di amministrazione commerciale e gestione contabile nella società, e che «ha svelato la mancata contabilizzazione delle retrocessioni agli inquirenti». L’avvocato, sottolineandone la collaborazione e la buona fede («si è subito ribellata», quando si è accorta del malandazzo) ne ha chiesto il proscioglimento dal reato di amministrazione infedele, come anche di quello di falsità in documenti in realtà – unica imputazione riconosciuta –, sempre per via della violazione del principio di celerità. Su posizioni simili anche gli interventi degli avvocati Diego Della Casa e Giovanni Molo.
«La pubblica accusa ha chiesto la stessa pena per tutti (due anni, ndr), violando gli esposti del Codice penale e il diritto costituzionale. Non sono accusati degli stessi reati, il periodo di pertinenza è diverso, come anche la condotta processuale. E in definitiva la loro colpa» ha evidenziato il primo. Della Casa difende un 44enne e Molo un 54enne, entrambi italiani, che nella società avevano il ruolo di semplici impiegati che si occupavano essenzialmente di trading di titoli. «Il mio assistito ha lavorato complessivamente per sole nove settimane nel periodo che ci interessa – ha precisato Della Casa –, quanto è stato effettivamente complice? Occorre un nesso di causalità fra danno e violazione dei propri doveri, che deve essere provato dalla pubblica accusa». L’avvocato ha ricordato una volta in più il contesto: «Siamo tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008, periodo nel quale le borse mondiali hanno registrato pesanti perdite. Pochi mesi dopo sarebbe fallita la Lehman Brothers dando avvio alla crisi del 2008. Questa è la ragione delle perdite: il reato di amministrazione infedele non si adempie semplicemente con una gestione deficitaria».
«La richiesta di pena è totalmente sproporzionata» gli ha fatto eco Molo. «La gravissima lesione del principio di celerità non è imputabile alla pp che anzi ha avuto il merito di portare a compimento questo procedimento. Chiedendo per tutti la stessa pena però non si fa giustizia, ma ingiustizia. Se anche fossero imputabili delle responsabilità al mio assistito, a causa degli impedimenti nel suo percorso professionale lui ha già pagato un prezzo talmente elevato da non meritare di essere condannato». Molo ha ricordato che appena il 54enne si era reso conto della pericolosità di operare in mercati così volatili come lo erano quindici anni fa, lo ha fatto presente al 53enne latitante, dissociandosi dall’attività e venendo infine persino licenziato. Licenziamento avvenuto peraltro nel 2007, l’avvocato ha pertanto invocato la prescrizione e il proscioglimento dell’imputato.
In chiusura di dibattimento c’è stata una breve parentesi di replica e duplica fra l’avvocato degli accusatori privati Luca Marcellini e alcuni dei legali della difesa, essenzialmente sulla natura giuridica dei reati imputati, mentre la presidente della Corte Francesca Verda Chiocchetti ha fissato la sentenza per giovedì 22 dicembre.