La squadra di Spalletti fa emergere il talento dentro le regole, esaltandolo. Così sta dominando la Serie A e sovvertendo i pronostici in Europa
Bisogna capire se si tratti di geometria o di poesia, se dobbiamo discutere di architettura che libera spazio là dove non ce n’era, o che occupa sapientemente il campo a disposizione. Dobbiamo decidere se caricarci di nozioni e dati statistici o se invece dobbiamo credere alla nostra capacità di guardare e di immaginare. Stabilire se si tratti semplicemente di pallone giocato, o di letteratura e matematica applicate al calcio. Di questione metrica: settenari, ottonari, endecasillabi, quartine dispiegate su un rettangolo verde, sì, potremmo azzardare. O provare a fare i sapienti e affermare cose come scienza esatta; formula chimica perfetta; saggistica applicata alla tattica e così via. Prenderci in giro o dire la verità. Trovarla la verità, una sola (impossibile!?), applicarla al gioco del calcio, declinarla rispetto a una singola stagione di una sola squadra: il Napoli. Sono tutte cose serie, teorie, stupidaggini, nessuna vera, nessuna falsa. Sono mille questioni, sono una sola. Sono una squadra che gioca benissimo e noi che la stiamo a guardare, sono un gol segnato da qualcuno che entra dalla panchina e noi che lo stavamo aspettando, sono una partita non dominata come Cremonese-Napoli eppure vinta agevolmente, sono i tifosi cremonesi che speravano di pareggiarla e quelli napoletani che sentivano la vittoria nell’aria. Bisogna prendere appunti e al contempo lasciarsi andare e farsi un’unica domanda rispetto al Napoli: io da agosto fino a qui che cosa ho visto? Ho deciso di abbandonarmi e questo è ciò che ho visto.
Il secondo gol di Zielinsky al Liverpool (Keystone)
In una poesia molto bella, Giovanni Giudici scrive: "Essenziale rimanere duri / salvare la gentilezza", questa coppia di versi che ci spiega che per restare duri (ossia integri) bisogna fare salva la gentilezza (cioè provare a essere migliori), sono parole che chiudono una poesia dal profondo significato politico e umano, ma sono anche le parole che mi sono scappate dalla bocca quando Zielinski, qualche giorno fa, nel pieno di un’incredibile partita di Champions League, tra Ajax e Napoli, si è infilato in uno spazio – fino a qualche secondo prima inesistente e da qual momento diventato autostrada – creato per lui e con lui dal tocco di Anguissa. Il centrocampista camerunense tocca per il polacco appena dopo la metà campo, se fossimo superficiali scriveremmo di contropiede perfetto e chiusa lì. Il gol, però, il terzo del Napoli di quella sera, risponde (nel mio immaginario) all’esortazione di Giovanni Giudici: durezza (integrità) e gentilezza. L’integrità viene dal rispetto degli schemi pensati da Spalletti e dall’aggressività sui calciatori olandesi, dalla lucidità di guardare al momento successivo, ovvero di immaginare (e sapere in parte) dove un compagno andrà, assecondando un movimento studiato e il talento e l’istinto. La gentilezza viene dal momento in cui la palla si stacca dal piede di Anguissa e rotola verso Zielinsky e, da quell’attimo, asseconda la sua corsa, che solo corsa non è. La gentilezza salvata in quei trenta metri diventa salvezza lei stessa, la corsa non è più corsa ma una specie di flusso che s’apre nel varco (diventato irraggiungibile per ogni calciatore dell’Ajax) che conduce il centrocampista del Napoli fino al limite dell’area di rigore. Nella poesia, Giudici, dopo la parola gentilezza mette il punto e proprio lì, sul respiro concesso dalla punteggiatura, Zielinski, di sinistro calcia e segna.
Spalletti è un allenatore molto bravo, al quale pare sia sempre mancato lo scatto finale, o forse non è così, forse le cose vanno come devono andare e quando allenava la Roma o l’Inter c’è stato solo qualcuno più forte, e anche la scorsa stagione forse il Milan è stato solo più forte. Fatto sta che la sensazione di incompiutezza resta, ma allo stesso tempo restano pure le capacità, tra tutte quella di aggiornarsi. Spalletti quest’anno appare molto tranquillo, come un personaggio di Malamud, anche se a differenza di questo – destinato in qualche modo a perdere, solo per il fatto di nascere ebreo –, lui pare finalmente destinato a una sorte diversa. La rapidità con la quale è riuscito a inserire così tanti calciatori nuovi nel Napoli, e a farli rendere al massimo, sarebbe da studiare, non è roba da poco. Di Spalletti però ho visto solo qualche espressione in panchina, e qualche volta ho provato a tradurre in italiano la lingua astratta con la quale concede interviste, molto poco, ho visto invece il Napoli applicare sul campo quello che l’allenatore spiega nella tranquillità del ritiro (per usare un verso di Raboni) e applicarlo bene.
Luciano Spalletti, 63 anni (Keystone)
Ho visto Lobotka ricevere palla dalla propria difesa, da qualunque compagno in difficoltà, controllarla facendo una delle sue torsioni (o giravolte) col corpo e poi spingere in avanti, accelerando se serve, rallentando se occorre, e dopo liberarsi del pallone, restare a portata di mano per riprenderlo, e così via all’infinito. Forse il migliore calciatore del campionato italiano fino a questo momento. Se ci trovassimo in un racconto, il momento in cui Lobotka riceve palla è quello che modifica lo scenario, tutto ciò che c’è prima è preparatorio: descrizione dell’ambiente, dei personaggi, qualche dialogo. Quello che viene dopo è accelerazione, rivelazione di quello che vuole raccontarci la storia. Luce che cambia, qualcuno che se ne va, una frase detta oppure taciuta, un bacio, uno schiaffo, una finestra rotta, una macchina che accelera, un cavallo che salta uno steccato, qualcuno che segna. Grace Paley, una delle più grandi scrittrici del Novecento (una che faceva strabiliare pure Philip Roth, per dire), ha scritto che ognuno merita il finale aperto della vita. Io credo che ogni cosa che avviene dopo una giravolta di Lobtoka meriti di non essere sprecata e che venga, perciò, condotta fino al gol.
C’è come un’armonia nello stare sul campo dei calciatori del Napoli, tutto sembra sincronico e al contempo libero, nessuno pare obbligato a stare sempre nella stessa zona di campo, anche se negli schemi così è indicato. Uno viene incontro l’altro va, l’opportunità arriva, lo spazio s’apre, un dribbling (e quanto ci piacciono, spesso così bistrattati) riuscito vale quanto un passaggio di prima, una finta non appare mai superflua ma necessaria, tutto conduce al risultato, ma non c’è un istante in cui venga a mancare la bellezza, il motivo principale per cui guardiamo le partite. Se la nostra squadra dovesse vincere sempre per 1-0 saremmo contenti ma, con ogni probabilità, smetteremmo di guardare le partite. Con il Napoli, almeno per ora, almeno in questa fase, non succede, perché quando meno te lo aspetti arriva un cross perfetto di Mario Rui (vedi Milan, vedi Cremonese) e un colpo di testa di Simeone (vedi le stesse partite), arriva un’accelerazione di Anguissa, una serie di finte e dribbling di Kvaratskhelia (che grandissimo giocatore che è questo), un tiro al volo di Zielinski, un anticipo pulito di Kim.
Quando Kim, negli ultimi istanti di Milan-Napoli, stoppa il colpo di testa di Diaz con una mossa da karate, da kung-fu, da difensore di classe, nessuno ci crede, tutti quanti dobbiamo aspettare il replay per capire come abbia fatto. Poi capiamo, capiscono tutti, noi, Diaz, gli altri giocatori del Milan, il pubblico di San Siro, è finita su quella fotografia, quel momento che starebbe bene in un dipinto di quelli in cui va in scena l’eterna battaglia tra scontro e bellezza, tra uno che cerca la luce e l’altro che gli chiude la porta.
Il gol di Simeone alla Cremonese (Keystone)
Il portiere è un solitario, tradizione vuole che lo si racconti così. Nessuno è stato più solo di Meret, così solo da poter sembrare un paragrafo di Una specie di solitudine di Cheever, un paragrafo cupo, chiaro e semplice dove leggiamo cose come questa: "Nel buio che chiude un weekend". In quel buio così malinconico è stato Meret per un sacco di tempo, dai tempi di Gattuso e anche per gran parte con Spalletti, fino al delirio di quest’estate, in cui sembrava doversene andare, non apprezzato, che dovesse essere sostituito da Navas (che, ci permettiamo, è tutto tranne un gran portiere). Meret è stato zitto, su un divano di quelli raccontati da Cheever, magari un po’ consunto, ha aspettato e dopo – senza parlare – si è messo in porta e ha cominciato a fare quello che sa fare: parare, riemerso in un’altra immagine dello scrittore americano: "La verità possiede, credo, il senso della rivelazione e della luce". La verità è tipo quella parata impossibile che Meret ha fatto a Glasgow e tutte quante le altre, che sono tante.
Meret, protagonista ritrovato (Keystone)
Kvaratskhelia va verso la fine di questo pezzo, perché non può essere che l’endecasillabo che chiude la poesia, perché quando accelera somiglia alla poesia. Lui è, contemporaneamente, l’azione che si svolge davanti ai nostri occhi e l’azione che stiamo immaginando. È presente, così è coniugato, eppure in ogni dribbling, finta, cambio di passo, lascia intravedere il futuro. E il futuro tra i piedi di questo ragazzo molto forte non tiene conto della parola tristezza. Più di tutte le azioni, i gol e gli assist che ha già fatto in questo inizio di stagione, vale la pena forse soffermarsi in un momento della partita di domenica pomeriggio. Cremonese e Napoli sono ancora sullo 0-0, sono diversi minuti che Kvaratskhelia, non tocca palla, si sta giocando poco sulla sinistra; in generale non pare sia in giornata. A un certo punto lo si vede comparire dalla parte opposta rispetto alla sua consueta zona d’azione, come se si fosse stufato, come a inseguire un’idea, come ad assecondare un guizzo, il talento. Si propone, riceve palla sul lato destro dell’area di rigore, rientra col destro e salta un primo avversario, sposta la palla sul sinistro e va verso il dischetto, un secondo avversario gli fa fallo, è rigore, la partita si sblocca. Guardando le immagini lo si vede, l’attimo prima del passaggio, con l’aria di chi si trovi lì per caso. Beh, non era per caso. Il Napoli di quest’anno lascia molto poco al caso, che non vuol dire rinunciare all’estro, anzi, vuol dire metterlo al servizio di uno schema, di una regola. Accade per le fiabe, per i racconti, per la poesia; esistono delle regole e poi esistono la fantasia, il talento, la ricerca del respiro; il Napoli è una giusta miscela tra questi aspetti. Il poeta americano Jericho Brown scrive "C’è la felicità che hai / E la felicità che meriti", al momento, nel caso del Napoli, ciò che si ha pare essere ciò che si merita.
Il gol di Kvaratskhelia contro l’Ajax (Keystone)