Ha fatto bene il Ps Ticino a promuovere un referendum contro una deduzione aggiuntiva dei premi di cassa malati di 1’200 fr. dal reddito imponibile per ogni figlio a carico. Deduzione della quale beneficerebbero tutti i contribuenti indipendentemente dal reddito. Ha fatto bene il Ps svizzero a invitare a respingere la proposta di modifica della Costituzione (referendum obbligatorio) atta a permettere una applicazione furbesca della decisione dell’Ocse dell’8 ottobre del 2021 per una imposizione minima del 15% per le multinazionali.
Ha fatto bene il Ps Ticino ad opporsi alla riforma della legge fiscale. Sull’opportunità politica di quel referendum si sono già espressi sabato scorso su questo giornale Manuele Bertoli e Adriano Venuti. Condivido completamente le loro argomentazioni con due aggiunte. Quella proposta rappresenta anche un indecoroso, indecente mercato nei confronti di una parte del ceto medio: noi ti regaliamo 80/100 fr. per figlio (che per te possono essere preziosi) se tu ci permetti (votando Sì alla riforma) di regalarne 200/300 per figlio ai contribuenti plurimilionari che di questo regalo neppure si accorgeranno! Il tutto con un costo per lo Stato (Cantone e Comuni) di oltre una decina di milioni di franchi. Uno Stato già confrontato con mezzi insufficienti per rispettare le proprie leggi sociali e pronto a dolorosi tagli a danno appunto proprio di quella parte del ceto medio che abbisogna di quegli aiuti. Ricordo che negli anni Novanta, quando fu votata la legge sui sussidi per l’assicurazione malattia, per evitare disparità di trattamento, avevo concordato con la collega Masoni una proposta di sgravi fiscali a favore di quella parte del ceto medio che non beneficiava dei sussidi, ma gli sgravi diminuivano aumentando il reddito e si annullavano a partire da un reddito imponibile per una famiglia con figli di 80’000 fr.
Ha fatto bene il Ps svizzero a opporsi alle modalità scelte da Consiglio federale e Camere per applicare l’aliquota minima del 15% agli utili delle multinazionali con sede in Svizzera. L’accordo per una imposta minima per le multinazionali è stato deciso dai capi di Stato del G20 nell’ottobre del 2021 e, successivamente fatto proprio da 137 Paesi quando gli Stati Uniti, confrontati con difficoltà finanziarie provocate in particolare dagli elevati costi provocati dalla pandemia di Covid, hanno fatto la voce grossa. Si sa che la Svizzera, che non può fregarsene contemporaneamente dell’Europa e degli Stati Uniti è particolarmente sensibile proprio alle sollecitazioni degli Usa come ha dimostrato anche l’abolizione del segreto bancario pochi giorni dopo avere accarezzato l’idea di iscriverlo nella Costituzione. Così è stato anche per l’aliquota minima il cui obiettivo è quello di combattere l’elusione di imposta favorita dalla concorrenza fiscale tra Stati e dai cosiddetti paradisi fiscali. Accettato obtorto collo il principio, si trattava di trovare delle modalità per attenuarne o annullarne gli effetti sull’attrattività fiscale della Svizzera. Innanzitutto, si è deciso che non si sarebbero modificate le aliquote cantonali inferiori al 15%. Poi si è introdotta una “imposta integrativa” prelevata dalla Confederazione a carico degli utili delle multinazionali al fine di raggiungere il 15%. Per evitare ricorsi relativi alla disparità di trattamento si è proposta una modifica della Costituzione che permette di derogare “al principio dell’imposizione secondo la capacità economica”. Dopo questa arrampicata sui muri il problema diventava quello di come utilizzare le entrate dell’“imposta integrativa” (da 1 a 2,5 miliardi). La Confederazione tratterrà un quarto dell’importo, mentre i tre quarti destinati ai Cantoni andranno nella misura dell’80% circa a Zugo e Basilea Città, cantoni sede delle multinazionali, in modo che possano conservare con modalità diverse (per esempio favorendo fiscalmente i manager delle multinazionali) i presupposti per eludere una giusta tassazione. Agli altri Cantoni, Ticino compreso, resteranno le briciole. Quindi si è andati proprio nella direzione opposta alle intenzioni di una imposta minima concordata meno di due anni fa con altri 136 Paesi. L’immagine del nostro Paese non ne uscirà rafforzata.
Per definire questo modo di operare si usa spesso il termine “pragmatismo”. Esagerando un poco potremmo dire, parafrasando Tito Livio, che un simile modo contorto, contraddittorio e poco trasparente di fare politica sta facendo un deserto della democrazia. Un deserto al quale è stato dato il nome di pragmatismo.