1923-2023

Henry Kissinger, l’uomo che si era fatto potere

In nome dell’interesse nazionale avallò massacri e dittature. Intelligente, scaltro e spietato, ha incarnato le anime dei due secoli in cui ha vissuto

Henry Kissinger ai tempi in cui era Segretario di Stato Usa
(Keystone)
1 dicembre 2023
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Henry Kissinger è stato tante cose: Heinz Alfred Kissinger, per cominciare. Con quel nome era nato, il 27 maggio 1923, a Fürth, in Germania; con quello che conosciamo tutti è morto mercoledì, poco più di cent’anni dopo. Una vita lunga un secolo, l’unità di misura con cui siamo abituati a valutare la Storia. Kissinger è stato un bambino tedesco della malconcia Repubblica di Weimar, un giovanissimo ebreo in fuga dal Terzo Reich, un soldato americano, un diplomatico, un professore di Harvard, un patriota, un habitué della Casa Bianca, un segretario di Stato Usa, un assassino di avversari politici, popoli e speranze con l’accortezza di lasciare sempre insanguinare le mani ad altri.

Nel suo secolo sbilenco, iniziato e finito con 23 anni di ritardo, Henry Kissinger – definito il Machiavelli a stelle e strisce – è stato l’uomo che ha fatto da ponte tra il periodo delle grandi ideologie e dello scontro tra nazioni monolitiche e quello dell’individualismo esasperato di questi anni liquidi, incarnandoli entrambi.

Servitore della patria e di sé stesso

Kissinger era un servitore della patria che usava la patria per servire il suo ego. Non ne faceva mistero, a lui piaceva il potere (come quasi a tutti), e come i più intelligenti, i più curiosi – se vogliamo anche i più sadici – lui il potere lo smontava e lo rimontava come fosse un giocattolo, per vederci cosa ci fosse dentro, ma anche per ribadire il suo controllo su questa chimera che, una volta raggiunta, di solito fa girare la testa anche ai più capaci, che siano capiufficio di periferia o inquilini della Casa Bianca.


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Con il presidente Nixon

Celebre è la sua frase “il potere è l’afrodisiaco supremo”. E se citazioni e aforismi del “morto del giorno” sono spesso un modo furbo per non ripassarne la biografia (e che biografia nel suo caso, per lunghezza e peso specifico), con Kissinger va detto che sono la strada più dritta per arrivare al nocciolo di un personaggio che è stato sì il Male in giacca e cravatta, ai limiti del disumano quindi, ma anche un esempio plastico dell’essere umano e delle nostre pulsioni più ataviche: la sopravvivenza dell’individuo, la dominazione del branco, il controllo dell’ambiente circostante. La vita di Kissinger è un manuale imbellettato, inamidato e rivelatore del vecchio “Homo Homini Lupus” di Plauto poi ripreso da Hobbes per ricordarci quanto l’egoismo e l’egocentrismo siano il vero motore delle nostre azioni, perfino quando ci illudiamo di essere altruisti.

Sudditanza (in)consapevole

Questo diplomatico d’altissimo rango con la faccia da ragioniere qualunque, che dava del tu a Mao, ma poteva anche essere quello che ti precedeva in coda alle poste, è stato la misura di coloro che consideriamo potenti, ma anche la nostra misura, quella di noi che con i potenti trattiamo, che dei potenti subiamo le decisioni, troppo spesso avallandole senza nemmeno rendercene conto.


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Con Margaret Thatcher

C’è una sudditanza verso il potente, che è quella – per fare un esempio tra mille – che permetteva all’avvocato Agnelli di girare con un orologio sul polsino e farlo diventare uno status symbol anziché risultare ridicolo. I potenti li assecondiamo, non solo spesso, ma anche volentieri, ogni volta che siamo in una posizione subordinata o anche solo dando per scontata la carriera di un “figlio di”. Per sperimentare questa sudditanza sociale non dobbiamo entrare alla Casa Bianca, basta molto meno. Ad esempio ascoltare una frase, rivelatrice, sempre di Kissinger: “La cosa bella dell’essere famosi è che, quando annoi le persone, queste pensano che sia colpa loro”. Dice tanto di lui, del suo godimento nel parlare di un potere che ha avuto fino all’ultimo, ma tanto anche di noi, che siamo lì – troppo spesso – a pendere dalle labbra dei tanti Kissinger in scala variabile che incrociamo ogni giorno in tv o nella vita, anche se non hanno nulla da dire, anche se dicono qualcosa di meno interessante di quel che potremmo dire noi. Le tante agiografie su Kissinger uscite quando ha compiuto cent’anni, pochi mesi fa, sono un esempio di quella tendenza al genuflettersi dinnanzi al potente che meriterebbe invece bacchettate. Perché sì, Kissinger è stato importante, influente, decisivo per la politica globale e quindi per le vite di miliardi di persone vissute negli ultimi settant’anni: è stato ingombrante, ma non grande.

Le vene aperte degli altri

Tenere in pugno le cancellerie che tengono in pugno il mondo, danzare sui fili sottilissimi della Guerra Fredda (quando la Guerra Fredda era una cosa seria) e addomesticarli fino a diventare quello che i fili li muove, ci dà la misura della sua intelligenza e della sua straordinaria abilità nel manipolare il prossimo ed essere sempre un passo avanti. Ma dov’è la grandezza in un uomo che ha mandato al macello un intero continente, considerato alla stregua del giardino sul retro di casa? Kissinger è l’uomo dell’Operazione Condor, quello che diede il via libera all’assassinio di Salvador Allende in Cile spianando la strada ad Augusto Pinochet; quello che diceva al generale Videla in Argentina “sbrigatevi a prendere il potere”; quello che teneva un filo diretto con le spietate dittature sudamericane del secolo scorso che in Occidente tendiamo a dimenticare, dal Paraguay al Brasile, all’Uruguay.

Realpolitik è un bel nome ottocentesco perfetto per quel pezzo di Novecento in cui Kissinger era all’apice del potere, e venne usata per descriverne l’operato. Come certi effetti ottici, però, la Realpolitik può essere una cosa buona oppure pessima: e in effetti è stata entrambe le cose. Ha tenuto in piedi equilibri precari in tempi in cui usare l’atomica era un’opzione, ma a che prezzo? Senza dimenticare che il riavvicinamento suggerito e poi attuato da Kissinger tra Stati Uniti e Cina non era un modo per salvare il mondo, ma un modo per salvare gli Stati Uniti. E torniamo da dove eravamo partiti, ogni mossa di Kissinger era fatta per interesse nazionale. Lui non pensava a salvare il mondo, ma le poltrone di chi gli garantiva un posto al sole. Lo diceva, candidamente, lui stesso: “Non si fanno le guerre per il beneficio dell’umanità, ma per interessi nazionali”. Resta ancora una citazione – non sua – che lo definisce quanto lo definivano le sue. Ora ci arriviamo.


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Durante un visita in Cina

Un Nobel mai digerito

A chi sembra che fin qui sia stato descritto un diavolo in Terra, ricordo che abbiamo invece ripercorso la vita di un uomo straordinario che racchiudeva in sé tutte le nostre pulsioni ordinarie. Per dire, era un appassionato di calcio che si spese per fare arrivare negli Usa Pelé e le altre star della prima epoca d’oro del calcio statunitense, provò a organizzare i Mondiali del 1986 (poi andati al Messico) e fu decisivo nell’assegnazione di quelli del 1994. Tifava la squadra della sua città e di quando era Heinz e non Henry, il Greuther Fürth: e in un’epoca pre-internet fatta di cablogrammi e telegrammi si faceva inviare il risultato che aveva la precedenza pure sulle riunioni nello Studio Ovale. Questo non fa di lui un uomo migliore o peggiore, ma un uomo sì. Non di pace, di compromessi casomai.

Per anni sbatté la testa contro quello psicodramma collettivo da cui l’America non è ancora uscita, il Vietnam. Lui stesso riconobbe quanto quel flop militare, diplomatico, umano, sociale avesse minato ogni certezza di un Paese che vive nell’illusione di essere sempre dalla parte giusta della Storia. Oriana Fallaci, che lo intervistò, riconoscendone l’intelligenza superiore e la capacità di non dire mai niente di più e niente di meno di quel che volesse davvero intendere, scrisse poi di una decisione che sembrava scellerata allora e ancor più oggi. E che in poche parole descrive perfettamente chi la prese e – per sottrazione – anche Kissinger. “A Stoccolma, gli dettero perfino il premio Nobel per la Pace. Povero Nobel. Povera Pace”.


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