A cento anni dall’elezione di Canevascini i socialisti festeggiano il traguardo pensando anche al futuro. Riget: ‘Battaglie da sempre nel nostro Dna’
Era il 23 aprile 1922 quando Guglielmo Canevascini, eletto con 3’669 voti su 4’408 votanti, è diventato il primo consigliere di Stato socialista del Canton Ticino. Un secolo dopo il Ps festeggia l’anniversario «non solo per commemorare questo traguardo e celebrare la nostra lunga storia di governo, ma per guardare avanti ai prossimi 100 anni del Ps in Consiglio di Stato» afferma la copresidente socialista Laura Riget davanti a più di cento eletti, iscritti e militanti riunitisi sabato a Bellinzona per festeggiare.
«Il mondo e la società sono cambiati tanto da quando Canevascini è stato eletto in governo, così come è cambiato il nostro elettorato e come potrebbe sembrare che sono cambiate anche le sfide... ma non è esattamente così», spiega Riget. Perché «l’elezione di Canevascini è avvenuta pochi anni dopo lo sciopero generale, quando oltre 250mila lavoratrici e lavoratori hanno manifestato per l’introduzione dell’Avs, il voto alle donne e la settimana lavorativa più corta. Molte di queste rivendicazioni all’epoca erano considerate utopia, ma sono state ottenute e oggi sono tra le più importanti conquiste sociali: il tutto grazie all’impegno dei socialisti».
Una lunga storia, quella del Ps, che per la sua copresidente «a volte porta con sé l’immagine di un partito antiquato, ma non è per niente così: le sfide di un mercato del lavoro sempre più precario, delle politiche a favore dei giovani, della lotta alle disuguaglianze economiche e di genere, dell’emergenza climatica sono nostre battaglie e riflettono i nostri valori, più attuali che mai». Un impegno che va sempre confermato, dal momento che «nonostante le lotte vinte per migliori condizioni salariali e di parità c’è ancora tanto da fare».
Come? Con quello che per Riget è il Dna socialista, vale a dire «credere nelle utopie, senza limitarsi a concepire la politica come governare il presente e basta ma ponendoci con i nostri valori e le nostre proposte come chiara alternativa alla maggioranza borghese». Già, perché maggioranza la sinistra in Ticino non lo è mai stata. E la sua presenza in governo è sempre stata minoritaria. È un tema toccato anche da Riget, questo «perché una domanda che ha segnato il nostro passato, buona parte di questo secolo, è stata se la partecipazione al governo fosse positiva per il partito o se, visti i rapporti di forza, ci rendesse solo complici dei borghesi».
Ebbene, la risposta della copresidente socialista è nettissima: «Noi dobbiamo assolutamente partecipare al governo, è nostra responsabilità di fronte ai cittadini per i quali chiediamo miglioramenti per la loro vita. Non è in contrapposizione con il credere nelle utopie, perché noi siamo sempre stati e saremo un collegamento tra la piazza e il governo, tra istituzionalismo e mobilitazione, tra utopie, appunto, e Realpolitik: tutto questo va a comporre la nostra identità».
A meno di un anno dalle elezioni cantonali, il pensiero finale di Riget non può che essere rivolto al futuro: «Spesso la nostra storia è stata segnata da divisioni o scissioni, in parte per legittime differenze politiche, altre volte purtroppo per colpa di personalismi che facevano dimenticare quale fosse il vero avversario politico. Per il futuro abbiamo bisogno di più collaborazione e più unione. Ognuno con la propria storia e la propria identità, ma uniti a lottare per ciò che ci accomuna: una società solidale, sostenibile e femminista, combattendo tutte le disuguaglianze per una giustizia sociale e climatica». Verdi e Partito comunista sono avvisati.
«La vera questione non è se valga la pena o meno stare in governo, ma come si sta in un governo, cosa si fa, quale sia la postura da tenere» afferma il consigliere di Stato socialista Manuele Bertoli. Secondo cui «l’importanza di come si sta al governo consiste nei valori che si portano: se questi sono chiari, definiti, concordati con il partito l’azione è abbastanza semplice. Poi, chiaramente, si tratta di capire cosa sia possibile fare, dove si possa arrivare e dove no. Perché – rileva ancora Bertoli – bisogna rispettare democraticamente il fatto che purtroppo il Canton Ticino non ha una maggioranza di centrosinistra». E di conseguenza «è difficile immaginare che da un governo con un esponente di sinistra su cinque escano decisioni marcatamente progressiste».
Ma non tutto è perso in partenza, anzi. A partire dall’ambiente: «Dagli anni Novanta i temi ambientali sono gestiti dalla Lega dei Ticinesi, eppure passi avanti sono stati fatti. Si sarebbe potuto forse fare di più, ci sono stati inciampi come la questione dei rifiuti, ma del mio collega attuale (Claudio Zali, ndr) non posso dire che non abbia attenzione per il tema e che non guardi nella giusta direzione. Il compito di un consigliere di Stato socialista è quello di sostenere, rafforzare questa tendenza a fare di più a livello ambientale».
Ma la riflessione di Bertoli si allarga anche al sociale, «noi abbiamo avuto prima il Dipartimento opere sociali e poi il Dipartimento sanità e socialità per molti decenni, prima che andasse al Ppd. E nel mio collega attuale (Raffaele De Rosa, ndr) non vedo la volontà di cambiare direzione».
I problemi sono più su altre questioni, come «l’impostazione della politica fiscale o la gestione delle persone che arrivano dall’estero, ma perché la legislazione nazionale sugli stranieri e sui richiedenti asilo è terribile – sottolinea Bertoli –. Ogni settimana mi trovo a dover condividere una serie di decisioni su casi singoli per i quali si cerca di intervenire dove c’è spazio di manovra, ma con questa legge è difficile trovarli».
E poi c’è la scuola, del Decs che dirige dal 2011. Scuola «dove non è facile fare passi avanti in termini di equità e migliori condizioni, perché il mito della competizione è visto come un elemento importante in temi generali, poi quando i perdenti si accorgono di esserlo bussano e chiedono alternative e piani B che un sistema competitivo però prevede poco». Ed è un peccato, «perché non dobbiamo occuparci solo dei cosiddetti vincenti, ma anche di chi fa più fatica».
Pietro Martinelli, consigliere di Stato socialista tra 1987 e 1999, mette le cose in chiaro: «Il nostro compito è sempre stato quello di rivendicare il fatto che c’è una visione del mondo diversa tra sinistra e destra, una differenza che molti vogliono cancellare ma c’è, esiste e continuerà a esistere in un Paese democratico». La differenza sta «nel ruolo dello Stato. Che per la destra è limitato, ma per i socialisti il compito dello Stato, oltre a creare infrastrutture per il funzionamento dell’economia stessa, è anche quello di garantire una migliore ripartizione delle risorse di quella che garantisce l’economia capitalistica. L’obiettivo è sempre stato redistribuire in modo diverso opportunità e risorse disponibili per una sempre migliore e realizzata giustizia sociale».
L‘esposizione fotografica presentata alla Casa del popolo e dal 12 giugno protagonista al Grotto del Ceneri ripercorre questo secolo di storia assieme al libro ‘Tracce di rosso’, a cura del gruppo di lavoro della Fondazione Pellegrini Canevascini. Entrambi sono stati presentati dallo storico Pasquale Genasci, autore anche di diversi testi del volume che ripercorre in maniera concettuale gli assi portanti dei cento anni di presenza socialista in governo. Un "lessico imperfetto" che passa dalle alleanze all’antifascismo, dalla fiscalità a Incontro democratico, dalle leggi sul lavoro a quella sull’assistenza sociopsichiatrica, dalla parità di genere alla salute pubblica passando da scuola, unità di sinistra e... trappola cattoriana.
Già, perché l’entrata del Ps in Consiglio di Stato non avvenne tramite un’elezione cantonale diretta. Nel 1922, come riporta il volume in un apposito capitolo iniziale, la maggioranza assoluta del Plr in governo non corrispondeva più agli equilibri del Gran Consiglio, dove "le minoranze avevano 42 seggi su 75". Dopo la rottura della bocciatura del Preventivo 1922, il consigliere di Stato liberale Garbani-Nerini lasciò il seggio, ciò comportò l’entrata in governo dell’agrario Raimondo Rossi.
Ma si era appena all’inizio: perché davanti ai tentativi dei liberali radicali di modificare le elezioni di governo e parlamento per tornare ad avere la maggioranza, il parlamento – quindi le minoranze – propose un controprogetto con un Consiglio di Stato a cinque membri con la cosiddetta ‘clausola Cattori’, consigliere di Stato conservatore, secondo la quale "se un partito non ha la maggioranza assoluta dei votanti non può avere più di due membri in governo". Il risultato furono le dimissioni di un consigliere di Stato conservatore, Mansueto Pometta, e l’ingresso di Canevascini. Ingresso che fu ‘accordato’ da un congresso del Partito socialista ticinese che, dopo anni e anni di dibattito sul tema, "con 43 voti contro 18 decise di presentare una candidatura per il governo".
«Perché nel 2011 passammo dal Dss al Decs? Beh, è una questione che merita qualche rivelazione...» afferma sibillino Manuele Bertoli, prima di raccontare come andò quella seduta di insediamento. Quella del 2011 fu un’elezione particolare: da un lato il Plr perse la maggioranza relativa a favore della Lega, dall’altro il governo fu cambiato per 3/5.
«Il regolamento in vigore prevede che i consiglieri di Stato uscenti possano mantenere il loro dipartimento, mentre gli altri dipartimenti vengono scelti in ordine e funzione dei voti ricevuti: in base a questo regolamento, io sono entrato come potenziale direttore del Dipartimento istituzioni, e non mi andava benissimo», racconta Bertoli.
«Laura Sadis disse che siccome i liberali avevano perso, il Dipartimento finanze ed economia sarebbe dovuto andare alla Lega. Un’ora di discussione perché i leghisti non lo volevano, con Sadis che alla fine si tenne il Dfe», prosegue il racconto. «Borradori, arrivato secondo, postulò per il Decs con l’idea che poi il terzo a scegliere, Gobbi, avrebbe preso il Dipartimento del territorio: in questo modo, il Dss sarebbe andato a Beltraminelli e io ultimo con le Istituzioni. Beh – rivela ancora Bertoli –, io misi in discussione quel regolamento, che essendo del governo in quanto governo noi potevamo cambiare 3 contro 2. Mi guardarono come se venissi da Marte, ma la possibilità c’era. La risposta di Borradori? "Andiamo a pranzo"».
Un pranzo lungo, «dal quale tornammo con l’imposizione di via Monte Boglia ai leghisti di mantenere il Dt e scegliere il Di, che per naturali cose sembrava essere gradito all’attuale direttore (Norman Gobbi, ndr). Restava la questione Dss/Decs». «La discussione – sottolinea Bertoli – era se dare la scuola in mano al Ppd, in questo Sadis fu molto dura chiedendo di non farlo, e con buone ragioni considerando come Beltraminelli nelle misure di risparmio del 2013/2014 propose di ridurre il liceo di un anno...». Sulla base di questo, «e valutando come i socialisti potessero farsi valere sulla socialità dal parlamento, forse è un bene che a noi sia toccata la scuola».
Per il futuro? «Per il futuro vedremo».