L'analisi

Tassi, Fed di fronte a un dilemma

17 settembre 2015
|

Questa sera la Federal Reserve potrebbe decidere d’incominciare ad abbandonare la politica monetaria ultra accomodante iniziata nell’ottobre del 2007. L’ultimo aumento dei tassi d’interesse risale infatti al luglio del 2006. Allora il tasso di riferimento della Fed era del 5,25%. Un livello stratosferico comparato ai tassi prossimi allo zero a cui i mercati finanziari si sono abituati da quasi un decennio. L’attesa per la riunione del comitato per la politica monetaria iniziata ieri e che si conclude oggi è molto elevata, soprattutto per le ripercussioni che un aumento del costo del denaro, anche lieve, avrà. La Banca mondiale ha già messo le mani avanti: Un aumento dei tassi – avverte – rischia di creare turbolenze sui mercati finanziari dei Paesi emergenti, dando vita a una “tempesta perfetta che potrebbe portare a auna forte riduzione di flussi di capitale verso i paesi più vulnerabili”. Detto altrimenti: la fuga dalle obbligazioni pubbliche e private delle economie emergenti (i cosidetti Brics), già iniziata da tempo, potrebbe mettere il turbo creando sconquassi nei fragili bilanci pubblici di questi paesi. Un’anticipazione si è avuta ad agosto con la cosiddetta ‘sindrome cinese’. La banca centrale americana si trova quindi di fronte a un dilemma: iniziare un percorso verso una normalizzazione della politica monetaria oppure evitarlo per cercare di stabilizzare i mercati. Una situazione analoga sperimentata solo in due altre occasioni negli ultimi 30 anni. Nel 1987 e nel 1998 la Fed ha evitato per ben due volte un aumento dei tassi. Il risultato? Ha contribuito di fatto a gonfiare la bolla finanziaria destabilizzando l’economia statunitense che cadde in recessione. Il dilemma – come fatto notare dal Financial Times nei giorni scorsi – è ora simile. Il mercato del lavoro statunitense si muove verso la piena occupazione ma a salari stagnanti e prezzi in calo. Questi ultimi sono stati trascinati al ribasso dal calo dei prezzi petroliferi e dalla forza del dollaro. Non ci sono, insomma, segnali di un aumento dell’inflazione che sembra ormai scomparsa dai radar delle economie cosiddette mature. Ma se il livello dei prezzi è in calo, non è così per gli asset finanziari ormai a livelli record nonostante le correzioni estive. Il pericolo però di alimentare la ‘bolla’, lasciando i tassi prossimi allo zero, c’è. E se la Fed tiene alla sua reputazione di indipendenza non dovrebbe assecondare i desideri dei mercati per non essere definita ‘ostaggio di Wall Street’. Ma a chi gioverebbe un aumento dei tassi statunitensi? Certamente all’Eurozona che vedrebbe perdere di ulteriore valore il corso dell’euro spingendo le esportazioni verso l’area del dollaro. Ma anche la Banca nazionale svizzera vedrebbe di buon occhio una decisione in tal senso perché calerebbe la pressione sul franco svizzero e probabilmente la stagione dei tassi negativi si potrebbe accorciare. Aumentando il differenziale di rendimento tra titoli espressi in franchi svizzeri e quelli in dollari a favore di questi ultimi, una ‘fuga di capitali’ dal porto sicuro elvetico equivarrebbe a un sospiro di sollievo per i settori votati all’export. Ovviamente la Fed deciderà pensando prima di tutto all’economia statunitense. Sbagliare però di quanti punti base aumenteranno i tassi e sui tempi di attuazione, potrebbe affossare la ripresa Usa. Gli obiettivi della banca americana sono la stabilità dei prezzi e la piena occupazione, non il livello degli indici azionari globali. Forse.

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔