Commento

Quelle oasi fiscali molto accoglienti

8 novembre 2017
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Dai Lux Leaks, agli attuali Paradise Papers passando per gli Offshore Leaks, gli Swiss Leaks e i Panama Papers, lo schema è sempre lo stesso: uno studio legale internazionale senza molti scrupoli, diciamo pure molto corsaro, localizzato di solito su un isolotto dei Caraibi o in qualche altro accogliente mare, assiste migliaia di facoltosi clienti (persone fisiche e giuridiche) di tutto il mondo, altrettanto corsari, nel creare una fitta rete di società in giurisdizioni esotiche e ignote ai più al solo scopo di frapporre uno schermo tra costoro e il fisco del loro paese (nella migliore delle ipotesi) o nel celare frode, riciclaggio di denaro e corruzione (nella peggiore).

Tecnicamente questa pratica si definisce di ottimizzazione fiscale, e in Svizzera si è stati maestri per molto tempo. Il migliore paradiso fiscale, infatti, si trova nel cuore della propria città e di solito è lo studio legale e commerciale più blasonato che può ben consigliare e ha i contatti giusti (oltremare) per costituire i veicoli giuridici necessari al proprio caso. Pratiche che dovrebbero essere ormai confinate alla memoria storica, visti gli sviluppi in ambito di cooperazione internazionale tra l’attuazione del cosidetto Common reporting standard (Ocse) e lo scambio automatico d’informazioni bancarie ai fini fiscali a cui Berna ha aderito.

La Svizzera ben conosce, per averle subite, le pressioni internazionali per evitare l’abuso dello ‘shopping’ giuridico da parte delle multinazionali e non solo. La Riforma III delle imprese (ora sostituita dal ‘Progetto fiscale 17’), bocciata in votazione popolare, era proprio frutto di quelle pressioni e tendeva a rendere eurocompatibile la normativa fiscale nazionale ed evitare, in pratica, buchi legislativi che invoglino le aziende straniere con sede in Svizzera, ma che hanno attività commerciale ed economica prevalentemente all’estero, a eludere oppure a ‘ottimizzare’ la tassazione degli utili. Siamo, come detto, nel campo del cosiddetto ‘shopping’ giuridico. Pratiche che rimangono nel novero della legalità, ma che fanno storcere il naso dal punto di vista dell’equità di trattamento e dell’opportunità politica.

La nuova inchiesta giornalistica condotta dall’International consortium of investigative journalists (Icij) di Washington e divulgata da numerosi giornali (per la Svizzera dal ‘Tages Anzeiger’) mostra nuovamente che ci sono decine di micro-Stati (tra cui Bermuda, Seychelles, British Virgin Islands, Singapore e naturalmente anche le Isole Cayman) che danno ancora asilo a pratiche ‘fiscali’ corsare se non illegali. Gli oltre 13 milioni di documenti usciti nottetempo dagli uffici della Appleby e dalla Asiaciti Trust (le due società oggetto dell’inchiesta giornalistica) mostrano ancora una volta quanto il sistema finanziario offshore sia in grado di gestire enormi ricchezze a livello globale, come una sorta di economia parallela, sovrapponendosi al mondo visibile degli uomini d’affari, politici, attori e di colossi come Apple, Nike, Uber e altre multinazionali, che vogliono evitare di pagare le tasse grazie ad artifici contabili e legali sempre più intricati e fantasiosi. Si tratta del lato oscuro dell’economia finanziaria. Apple, per esempio, è la società con il maggior valore di Borsa al mondo la cui capitalizzazione cresce di giorno in giorno (ha ormai superato i 900 miliardi di dollari). È anche la società quotata con una liquidità enorme (252,3 miliardi di dollari al 30 settembre) sulla metà della quale non ha versato un solo dollaro d’imposte. Avrebbe fatto lo stesso la gioia dei suoi azionisti se non avesse ‘ottimizzato’ il suo onere fiscale?

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