Estero

Oltre le linee di Mosul, reportage dalla città irachena dove si combatte l'Isis

"Macchie nere si muovono lentamente"
2 gennaio 2017
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La pioggia degli scorsi giorni ha trasformato il terreno in una palude rossiccia. Oggi è uscito il sole. Si alzano gli elicotteri dell’aviazione irachena, insieme ai caccia americani e probabilmente britannici, invisibili se non fosse per la coda di vapore che producono i motori. Gli elicotteri montano mitragliatrici pesanti e cannoni lanciarazzi. I proiettili partono con un sibilo  che sembra venire da sottoterra, da sotto i piedi. Le batterie dei mortai entrano in azione e spostano l’aria, con una spallata violenta. I colpi singoli dei cecchini interpretano la parte dei solisti. La battaglia è un’orchestra diretta da qualcuno che non si vede, seduto dentro il posto di comando a qualche chilometro da qui.

Alcuni soldati della Polizia federale irachena, che mi ha permesso di andare al fronte e di entrare a Mosul, sono seduti sul pianale di carico di un pick-up. Armati fino ai denti, sporchi e stanchi: stanno tornando in prima linea. Dicono: «Good, good» e fanno il segno che va tutto bene. Avranno vent’anni. Chiedo a uno di loro se non ha paura. «Nessuna paura – dice – i soldati iracheni non hanno paura». Due anni fa era andata diversamente: divisioni intere se l’erano data a gambe di fronte all’avanzare dello Stato Islamico (Isis). Oggi? «Siamo qui per vendicarci», dice un altro soldato. Sono sciiti del sud dell’Iraq, decisi a prendersi la rivincita sui sunniti dell’Isis. Non si fanno prigionieri nella battaglia di Mosul. Non credo.

Da lontano, sulla sterrata che conduce alla città, macchie nere si muovono lentamente. Poi si precisano: sono persone in fuga. Famiglie intere che hanno portato con sé ciò che riescono a tenere in mano o sulle spalle, sacchi di plastica con dentro qualche coperta. Una donna chiede dell’acqua a un soldato, che si avvia verso il suo Humvee. Torna con due bottigliette. «Che Dio ti benedica», dice la donna. Scrivo sul taccuino: dov’è Dio? Che cosa starà facendo, ora? Un anziano seduto su una sedia a rotelle viene trascinato da altri due uomini: con una kuffiyah (un foulard di cotone) si tirano dietro la carrozzina, che rimane incollata nel fango. Hanno impiegato ore per percorrere il chilometro scarso da Mosul a questa posizione avanzata dell’esercito iracheno. Nessuno si lamenta: è come se ciò che sta accadendo rientri nei disegni che decidono della loro vita. I civili vengono portati verso gli autobus dell’esercito. Alcuni militari aiutano a sollevare l’uomo in carrozzella e a farlo passare da un lato all’altro di una trincea. Uomini, donne e bambini vengono portati verso i campi profughi nel Kurdistan iracheno, al sicuro. Sanno che ci resteranno per molto tempo. Quanto?

‘Ecco, ci siamo’

Una piccola nuvola bianca si alza dai campi, a qualche metro da noi. Chiedo al tenente Haidar, l’ufficiale che mi accompagna, che cosa è stato. «È un drone dell’Isis, li utilizzano per sganciare granate sulle nostre postazioni». Mi spiega che gli elicotteri riescono a colpirne una buona parte, con una mitragliata. Improvvisamente, un’esplosione violenta a qualche centinaio di metri. Una nuvola bianchissima, sembra panna montata, si leva verso il cielo. Un razzo lanciato da un caccia oppure un missile sparato da un’unità di terra irachena ha colpito un’autobomba dell’Isis. Le autobomba sono una specialità dello Stato islamico: guidate da attentatori suicidi, sbucano dal nulla e causano molte vittime fra le file irachene. La stessa cosa vale per le imboscate tese alle spalle delle prime linee, grazie a gallerie scavate nel terreno.

Saliamo in macchina e avanziamo per dieci minuti, cercando di mantenere un’andatura elevata, per quanto lo conceda il terreno. Improvvisamente, il ragazzo che mi accompagna, quello che in gergo i reporter chiamano fixer, esclama: «Siamo dentro a Mosul». La sua voce esprime incredulità. Il mezzo dell’esercito si immette in un lungo viale inondato di sole. Le lamiere sparse per terra mandano riflessi, i pezzi di muri che non hanno retto alle esplosioni ci costringono ad avanzare zigzagando. I fili della corrente e del telefono penzolano dai pali. Sembra una quinta deserta, ma non è così. Seduti con la schiena appoggiata ai muri di cinta delle case, ci sono alcuni, pochi, civili. Ci osservano senza dire nulla, senza salutare, senza muoversi. Sono vivi, eppure è come se fossero morti. La guerra non è un’orchestra, no. La guerra è maledetta. Quando non li uccide, distrugge gli esseri umani dal di dentro. Questi civili, seduti davanti alle loro case, nel quartiere di Intisar, nella parte sudorientale di Mosul, dove si spara e cadono bombe, sono distrutti dentro. Incapaci di decidere che cosa fare, incapaci addirittura di fuggire.

Siamo ormai dentro la città. Ovunque mezzi corazzati dell’esercito iracheno. Sui parabrezza i segni delle pallottole arrestate dai vetri spessi cinque centimetri. C’è del filo spinato, ci sono barricate costruite con mucchi di terra. In quella che era una scuola sono parcheggiati anche alcuni veicoli dell’esercito americano. Si combatte: esplosioni e raffiche di mitragliatrice, da terra e dall’aria. Spuntano due bambine – da dove? – poi altre ancora. Una di loro si mette a pulire, con dell’acqua e una scopa, l’entrata di una casa sulla quale qualcuno ha messo una bandiera bianca. Sul cancello compare il padre, Fares. Racconta di essere fuggito da casa sua, situata più avanti nel quartiere e di essersi rifugiato con la famiglia nell’abitazione di un cugino, nella zona che l’esercito iracheno controlla da un giorno soltanto. Chiede aiuto. Di che tipo, chiedo. «Mio figlio è stato ferito a una gamba da quelli dell’Isis in fuga. L’Isis ha incendiato la mia casa e le mie quattro automobili».

Civili scudi umani

È una versione dei fatti che coincide con molte altre raccolte: l’Isis cerca di uccidere chi fugge per scoraggiare chi pensa di farlo. Dei civili di Mosul gli estremisti fanno scudi umani, spiega il tenente Haidar, per rallentare l’offensiva. Entro nella casa di Fares. In una piccola stanza con il pavimento ricoperto da un tappeto c’è una donna, Saadia Hazad, che fuggendo si è rotta una gamba, e ci sono altri bambini. Quattro di questi sono handicappati mentali. Dall’esterno provengono altre esplosioni. Nessuno sembra farci caso. Nemmeno le bambine per strada.

Poco distante c’è un’altalena, dentro a un giardinetto. A pochi metri da lì un taxi bianco e arancione, fatto a pezzi. Un gruppo di donne anziane stanno sedute per terra, protette da un muro, non parlano. Una gallina solitaria attraversa la strada. Un cucciolo di cane osserva la scena: i suoi occhi esprimono l’immensa pietà e compassione che soltanto gli animali sanno provare, in alcune occasioni, per gli esseri umani. In guerra, ad esempio.

Il capitano Bassam non nasconde che dall’inizio della seconda fase dell’offensiva, il 29 dicembre, alcuni dei suoi uomini sono caduti. Lo dice quasi sottovoce, e capisco il suo dolore. Dice che il peggio deve ancora arrivare. Quando sarà sconfitto l’Isis, la torta della vittoria farà gola a tutti; in particolare, aggiunge, agli sciiti, presenti con unità combattenti militari e paramilitari che rispondono agli ordini di partiti e leader diversi. Ciascuno vorrà la sua fetta e per prendersela, spiega il capitano, non esiterà a imbracciare di nuovo le armi: sciiti contro sciiti.

Vittime di interessi altrui

Lo stesso scenario è immaginabile per i curdi iracheni, che hanno cacciato l’Isis da città e villaggi che il governo centrale di Bagdad rivendica per sé, mentre i Peshmerga sostengono il contrario. L’aria è impregnata di violenza, quella prodotta dalla battaglia e quella immaginabile per il futuro. Dopo avere ascoltato il capitano Bassam, è come se ciascuna esplosione portasse l’anticipazione di un nuovo disastro per questa terra fatta a pezzi, vittima sacrificale degli interessi interni e dei padroni concorrenti esterni, e di una parola che dovrebbe suonare come una bestemmia, una parola che ignora le vittime, le calpesta, le offende: geopolitica.

Altri civili escono da Mosul. Inas, che ha sei anni, viene portata via dal fronte a bordo di un pick-up blindato della Polizia federale. Inas mi osserva e non parla. Quando le chiedo come sta, dice: «Ho paura, ho freddo». Anche lei finirà in un campo profughi nel Kurdistan iracheno. Migliaia di tende nel deserto: evocano un’immaginaria colonia su Marte. Chi vive in questi campi sa che non tornerà presto a Mosul. Si dice che siano, allo stato attuale, centottantamila. Ne giungono, ogni giorno, di nuove. Vivono nel fango, chiusi dietro recinzioni con il filo spinato.

Il governo curdo non si fida di questi sunniti, teme le infiltrazioni dell’Isis e, più in generale, li ritiene colpevoli di avere dato il benvenuto, due anni fa, agli estremisti vestiti di nero.

È ora di lasciare Mosul. La famiglia di Fares, con il bambino ferito a una gamba, ci ringrazia per essere venuti. Ho l’impressione che pensi che il mio giubbotto antiproiettile possa proteggere anche la sua famiglia. Ho davvero questa impressione. Non è facile entrare a Mosul, non è facile restarci, ma è la sola cosa giusta da fare, in questa guerra. Guardarla in faccia. Dentro, da vicino, fino a metterle se non paura (la guerra non ha paura) perlomeno vergogna. Ecco: farle provare vergogna, a questa come a tutte le altre.

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