L'analisi

Ma non è solo la ‘loro’ guerra

30 marzo 2015
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Come mai lo Yemen, “il posto più bello al mondo” come lo definiva Pasolini, ma anche uno dei Paesi più poveri del pianeta, sta diventando il potenziale detonatore di una guerra che potrebbe ulteriormente destabilizzare un Medio Oriente già alle prese con una catena infinita di tensioni e conflitti? E come mai una Lega araba così esitante e ambigua nell’impegnarsi militarmente contro il sanguinario neo-califfo Abu Bakr el-Baghdadi riesce invece a coalizzare rapidamente una decina di nazioni arabe e non arabe (c’è l’Egitto, ma ci sono anche Turchia e Pakistan) disposte ad intervenire militarmente nel piccolo paese alle porte del Mar Rosso? Anche se siamo nella terra delle mille complicazioni, e anche se l’intreccio delle crisi in atto esclude le semplificazioni, questa volta la risposta sembra piuttosto lineare, chiara. In effetti, nelle sabbie attorno alla mitica Sanaa si è acceso un minaccioso confronto ravvicinato fra le due teocrazie regionali, che sempre più apertamente si contendono la supremazia sulla comunità musulmana. L’Arabia Saudita, custode dei luoghi santi maomettani (la Mecca, Medina), ispiratrice del fondamentalismo conservatore wahabita, e dunque convinta di poter rivendicare la leadership della componente maggioritaria dell’Islam; e l’Iran, bandiera della minoranza sciita, che pretende lo stesso ruolo-guida in quanto legittimata dalla discendenza diretta di Maometto attraverso il nipote, e martire, Alì. Una ‘semplice’ guerra di religione, allora? Non proprio. Più importanti ancora sono in realtà gli aspetti strategici ed etnici di questo scontro: da una parte l’ambizione politica di conquistare la supremazia regionale, dall’altra il mai sopito antagonismo storico fra Arabi e Persiani. In questo braccio di ferro, che già si è riverberato in altri tasselli medio-orientali, lo Yemen appare come ‘vittima perfetta’ per trasformarsi nel terreno di una guerra per procura. Al suo interno, la guerra civile fra i sunniti del presidente Hadi (costretto alla precipitosa fuga anche dalla città costiera di Aden) e le milizie sciite Houthi (che hanno già il controllo della capitale Sanaa) ha mobilitato i rispettivi partner esterni: i sauditi a sostegno del ‘presidente legittimo’ Hadi (riconosciuto dalla comunità internazionale), e Teheran a fianco dei ribelli sciiti. Un sodalizio, quest’ultimo, che da Ryad e dai suoi alleati viene vissuto come la prova dell’espansionismo iraniano. Da spezzare anche con la forza: finora i bombardamenti aerei, ma domani, chissà, anche con un intervento di terra. Con l’evidente rischio di una pericolosa escalation, se gli ayatollah di Teheran dovessero decidere di reagire (magari servendosi delle decine di migliaia di combattenti che possono far confluire dalle milizie di cui già dispongono in Libano, Irak e Siria). Così, lo stesso Yemen che alla fine dello scorso anno il presidente Obama definì “un modello della guerra al terrorismo” si trasforma nell’ennesimo rompicapo regionale per la Casa Bianca. Non solo i frequenti attacchi dei droni americani hanno più che altro destabilizzato lo scacchiere yemenita (soltanto il Pakistan ha subito un numero maggiore di raid statunitensi) senza disarticolare i santuari di Al Qaeda. Ora, la Casa Bianca è costretta anche ad esibirsi in un complicato e triplice esercizio d’equilibrio: deve sostenere concretamente l’Arabia Saudita, già irritata e allarmata a causa del dialogo fra Washington e Teheran; deve evitare che l’Iran conquisti eccessivo peso militare; ma al tempo stesso deve fare in modo che la Repubblica islamica continui a combattere il Califfato e soprattutto che accetti un accordo sul nucleare iraniano. Apparentemente, la quadratura del cerchio. A conferma che lo scontro sempre più aperto fra sunniti e sciiti, mai soffocato del tutto sotto le sabbie incandescenti del Medio Oriente, complicherà ulteriormente i giochi e i drammi della regione. Lo Yemen, “il posto più bello al mondo”, potrebbe trasformarsi nel suo primo tragico test. È la ‘loro’ guerra, e prima o poi l’Occidente dovrà pur prenderne atto rivedendo tutta la sua politica interventista. Ma chi può dire se e come contenere l’incendio evitando che ci coinvolga?

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