L'analisi

Lo sgarbo di ‘Bibi’

4 marzo 2015
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Quest’ultimo viaggio di ‘Bibi’ Netanyahu negli Stati Uniti era partito dal... ‘Muro del pianto’. Sabato scorso, l’istantanea ritraeva il premier, le mani aperte appoggiate sui resti del secondo Tempio di Gerusalemme, il capo chino, assorto in preghiera. E qualche giornale si è inevitabilmente chiesto se pregasse per Israele o per la sua rielezione. Sia quel che sia, il capo del governo israeliano ha lanciato una sfida senza precedenti al presidente americano Barack Obama: contravvenendo a una regola mai infranta finora, senza nemmeno consultarsi con la Casa Bianca si è fatto invitare dalla maggioranza repubblicana per un discorso al Congresso di vigorosa contestazione agli sforzi statunitensi affinché si raggiunga il difficile accordo con Teheran sul nucleare iraniano. Uno sgarbo plateale nei confronti di Obama, che addirittura «minaccia di demolire le basi delle relazioni israelo-americane», ha ammonito Susan Rice, la consigliera per la sicurezza nazionale. Intendiamoci, non è la prima volta che fra i due alleati corre cattivo sangue. Ci sono stati presidenti americani (da Eisenhower a Carter a Reagan) che ebbero plateali scatti d’ira per il tenace rifiuto dei ‘consigli’ degli Stati Uniti, generosi finanziatori della sicurezza israeliana. E tutti sanno dei pessimi rapporti anche personali fra l’attuale capo della Casa Bianca e il premier di Israele. «A pain in the ass» (un “rompi…”, per ricorrere a una traduzione edulcorata) sembra abbia detto Obama del suo intrattabile interlocutore; mentre ‘Bibi’ si schierò pubblicamente dalla parte del candidato repubblicano Mitt Romney nelle presidenziali del 2012. Se Netanyahu si permette tanto non è solo per l’irremovibile convinzione che l’Iran stia bluffando e che continui a rappresentare la più seria minaccia che deve fronteggiare Israele (secondo alcuni quotidiani anglosassoni lo sostiene ricorrendo anche a dati fantasiosi). Lo fa, a sole due settimane dalle elezioni israeliane, per rastrellare consensi in patria attraverso la potente lobby ebraica americana, e perché sicuro che gli interessi di Israele rimangono, nonostante tutto, la ‘stella polare’ della politica americana in Medio Oriente. Un ‘rapporto speciale’ che ha fin qui superato tutte le prove. E che, ritiene il premier, continuerà a superarle. Tutta la regione a sud del Mediterraneo è in fiamme, l’Occidente teme il neo-Califfato, la questione palestinese langue, perché dunque preoccuparsi di Obama? Ma c’è un… ma. Un Obama poco disposto a fare l’‘anatra zoppa’, deciso a ritagliarsi ancora uno spazio di iniziativa politica, non appare così arrendevole, e non sembra voler gettare alle ortiche la possibilità, pur flebile, di uno storico accordo con l’Iran. Non solo il pragmatico Rohani (minacciosamente atteso al varco dai falchi del suo regime) è il meglio che oggi l’Occidente possa avere a Teheran. L’Iran è anche un obiettivo alleato militare contro i jihadisti di Al Baghdadi. E senza l’Iran non c’è stabilizzazione dell’area. Non è dunque scontato che la ‘mano di poker’ di Netanyahu disarticoli i piani di Obama. E che lo sgarbo di queste ore verso il capo della Casa Bianca non contribuisca ad accrescere l’isolamento internazionale di un Israele potenza atomica (ma chi ha cura di ricordarlo?) che agita lo spettro nucleare iraniano.

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