L'analisi

Il miracolo di Cameron

9 maggio 2015
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Aveva chiesto agli inglesi di “poter finire il lavoro”, offrendogli un nuovo mandato. Richiesta semplice, nulla di enfatico. Ed ecco che gli elettori gli danno molto di più. Regalano a David Cameron un autentico trionfo. Mandando all’aria i sondaggi, fino all’ultimo concordi sulla previsione di una gara al fotofinish con i laburisti. E smentendo anche le preoccupazioni di alcuni suoi collaboratori, impensieriti per una campagna elettorale puntigliosa ma non abbastanza calorosa, di un leader di cui si diceva che fosse stimato ma non amato.
Miracolo politico. Con due vistosissimi effetti. Da una parte, il sisma scuote i suoi principali avversari, costringendoli a gettare subito la spugna. Obbligandoli alle dimissioni. Lascia il poco carismatico Ed Miliband, col Labour in continua discesa dal dopo-blairismo. Lascia il liberal-democratico Nick Clegg, l’alleato “cannibalizzato” dal Tory. Lascia perfino Nigel Farage, il populista anti-Ue e anti-immigrati, non rieletto nel proprio collegio: abbandono tattico, ma non irrilevante.
E poi (anzi: soprattutto) un voto che evita il cosiddetto “Hung Parliament”, il rischio di un “parlamento appeso”, senza un partito di maggioranza assoluta: l’aspetto politicamente più rilevante scaturito dalle urne.
Cameron ha i numeri per governare da solo e il Regno Unito segnala la voglia di un ritorno al rassicurante bipolarismo che l’ha governato per decenni, ma che difficilmente potrà essere ripristinato vista la frammentazione sul fronte opposto. Su questa segmentazione pesa soprattutto l’altro trionfo, quello dell’Snp, gli indipendentisti scozzesi di Nicola Sturgeon, che prende la sua rivincita dopo aver fallito pochi mesi fa il referendum sulla secessione, e che ora deve decidere come gestire questo straordinario successo. Cioè fino a che punto spingere le pretese di devolution.
Successo, quello dell’indipendentismo di Scozia, terra tradizionalmente a vocazione laburista, pagato a carissimo prezzo dal partito di Miliband. Un’autentica “opa ostile” da parte dell’Snp sulla sinistra britannica, con la conquista di quasi tutti i seggi a nord del “Vallo adriano”.
Ma il vero handicap del Labour è stato quello di non aver saputo convincere sul pesante prezzo sociale dell’austerità (più lavoro precario, salari medi ridotti dell’8%, esplosione del numero delle banche alimentari, regali fiscali alle grandi fortune), a fronte dei numeri vantati da Cameron (disoccupazione ridotta di tre punti e ultimo Pil in crescita del 2,8 per cento, il miglior risultato nel G8).
Confermato al 10 di Downing street da questa ondata di consensi, per “David pigliatutto” si apre ora la scommessa del referendum sulla permanenza nell’Unione europea. Lui ha ripetuto che vuole il Regno Unito in Europa. Ora può affrontare più agevolmente la partita; si spera anche più ragionevolmente, evitando di alzare troppo le pretese da presentare ai 27 partner europei.
Non è affatto una partita vinta in partenza. Il ritiro di Farage durerà un’estate. Tornerà per il duello finale. Anche se la forza di Cameron rende più ardua una rivincita nel segno del più esagitato antieuropeismo.

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