Il Consiglio degli Stati ha optato per definire il reato di stupro aderendo al principio ‘del rifiuto’ anziché a quello ‘del consenso’
Ha perso un’occasione per sanare un’ipocrisia. È quanto si può dire sul piano formale – ma non è questo l’aspetto più preoccupante – della decisione presa a maggioranza dal Consiglio degli Stati di aderire al principio "del rifiuto" (no significa no) anziché a quello "del consenso" (solo sì significa sì) per ridefinire il reato di stupro nel Codice penale in materia sessuale. Così facendo mostra di voler continuare a contravvenire alla Convenzione di Istanbul ratificata dalla Confederazione che stabilisce come punibile ogni rapporto sessuale imposto senza l’assenso dell’altra persona coinvolta. La Camera dei Cantoni ha infatti optato per la soluzione che determina il reato di stupro solo se la vittima ha espressamente manifestato un rifiuto e questo è stato ignorato.
Per un’ampia rete di organizzazioni nazionali e cantonali – composta da Ong per i diritti umani, centri antiviolenza, uffici per le pari opportunità, associazioni delle donne, collettivi femministi, rappresentanti delle comunità Lgbtqi+, nonché diversi politici (in Ticino hanno aderito all’appello granconsiglieri di sinistra, centro e persino destra) – la soluzione votata dagli Stati non tiene conto della realtà della maggior parte delle violenze sessuali, in cui la vittima non è nelle condizioni di esplicitare il proprio diniego per paura di un accanimento o a causa di una sorta di paralisi psicologica e fisiologica detta "freezing". Anzi, il modello "del rifiuto" ha l’ingiustificabile difetto di colpevolizzare e ignorare le vittime che non hanno potuto opporre resistenza, e sono moltissime. Dati alla mano, in Svizzera oltre 9 violenze sessuali su 10 non vengono denunciate, e le motivazioni addotte sono il timore di rappresaglie, quello di non essere credute, quello del giudizio pubblico per non aver reagito. In questo scenario, la decisione degli Stati cade come un macigno lungo il decantato percorso per contrastare la violenza sessuale, sotto cui continuerebbe a restare schiacciata la sofferenza di molte vittime e nella cui ombra rimarrebbero liberi di agire impunemente numerosi aguzzini non denunciati.
Rispondendo alla consultazione federale, il Consiglio di Stato ticinese aveva lanciato un chiaro segnale: "La gravità dello stupro non deve dipendere da ciò che la vittima ha fatto o meno per difendersi, ma dal comportamento dell’autore di violenza". Nel medesimo testo sosteneva che integrare il concetto di consenso nei reati sessuali "non intacca né l’onere della prova né la presunzione dell’innocenza in quanto, in base al principio ‘in dubio pro reo’, il dubbio gioverebbe all’imputato qualora non si riuscisse a dimostrare che la vittima non ha dato il suo consenso o non lo ha espresso in qualche modo". In sintonia con tale valutazione, i risultati già ottenuti e analizzati nei primi Paesi che si sono adeguati alla Convenzione di Istanbul – per ora 13, ma la lista è destinata ad allungarsi – decostruiscono i timori di un aumento di denunce infondate. Per contro mostrano risvolti importanti nell’individuare e proteggere le vittime. Il Consiglio degli Stati ha così perso un’occasione in particolar modo sul piano della concretezza – ed è questo che più preoccupa – per dar prova di voler portare alla luce almeno parte del grave fenomeno sommerso, e di voler andare nella direzione di garantire a ogni persona, come uno Stato democratico dovrebbe fare, il diritto all’autodeterminazione sessuale e a vivere in una società libera da prevaricazioni di genere. Ora tocca al Consiglio nazionale discuterne. L’auspicio è che riesca a trasformare il macigno in una pietra d’inciampo da cui rialzarsi e ripartire per mettere in fila gli ancora numerosi passi necessari.