Pestato dalla dittatura bielorussa, Roman Protasevich ’ammette’ i suoi crimini in un siparietto tv che ci riporta ai tempi cupi del comunismo sovietico
I forti contrasti nei chiaroscuri dello studio televisivo occultano le ferite ai polsi e i lividi in volto. Ma la tecnica della messinscena è troppo consumata e nota e per trarre in inganno lo spettatore. Un tetro déjà vu. I lividi Roman li porta nelle lacrime che trattiene a stento fino al pianto finale e nelle parole calibrate con cui confessa i propri errori prima di elogiare “l’uomo con le palle d’acciaio” che lo ha fatto rapire e sbattere dietro le sbarre dopo un piratesco dirottamento del velivolo sul quale si trovava. Roman ora “nutre rispetto per Alexander Grigoryevich”.
Dalla gola vorrebbe uscire un gemito, un grido; è come se il giovane dissidente, stremato e indifeso, volesse solo rannicchiarsi in una grotta per proteggersi. Chiudersi, farla finita con un tortura lunga due settimane. Loda il suo persecutore Lukashenko mentre il suo sguardo impaurito penetra la luce cinerea e si imbatte in quello del suo interlocutore. Di fronte a lui, a un paio di metri, in un decoro sobrio, l’inquisitore è una vasta figura rubizza da gagliardo bevitore di vodka: è il “giornalista” star della televisione di Stato che dardeggia con lo sguardo la sua vittima, ormai la controlla totalmente. Roman Protasevich ha ceduto, si è piegato, si è annullato, ha imparato a memoria le risposte, e lui lo osserva con vetriolesca compiacenza e con malcelata soddisfazione. Il suo padrone apprezzerà certamente lo spettacolo. Il “giornalista” sembra contenere a stento da buon aguzzino un’allegra ed empia volontà di annientare la sua vittima.
Lukashenko ha ripreso in mano le redini del paese, lo ha chiuso, blindato, le donne vestite di bianco che manifestavano nelle strade di Minsk sono svanite nel nulla. Roman, nella sua solitudine intrisa di angoscia, gli occhi atterriti, cerca di recitare la parte senza inciampi: è stato trattato bene, nessuna tortura, no certo, nessuna confessione strappata con la forza. È un criminale reo confesso, se lo dice lui stesso come non credergli? Specifica anche “342”, l’articolo del codice penale che ha gravemente calpestato. Sì, vero, ha organizzato disordini di massa, ma ora rinnega tutto, idee, compagni di lotta, i “giochi sporchi”. Non farà mai più politica, promette prima di crollare nel pianto.
L’atroce teatrino in salsa bielorussa sembra riportarci pari pari al cupo periodo staliniano, immortalato da un celebre libro autobiografico di Arthur London, “La confessione”, ripreso poi dal grande regista Costa Gavras. London, cecoslovacco, da sempre comunista, combattente repubblicano in Spagna, resistente in Francia, ministro dal 1948 nel suo paese, fu arrestato per ordine di Stalin nel 1951 assieme a tredici altri dirigenti (quasi tutti ebrei) e condannato all’ergastolo. Undici imputati furono impiccati. Accusato di sionismo e di trotskismo, in assoluto il peggiore dei crimini, cedette alla violenza, alla privazione di sonno, alla tortura ammettendo, nell’illusoria speranza di una riduzione di pena, tutte le sue colpe. Imparò a memoria la sua confessione e la recitò in un processo diffuso in diretta alla radio nazionale. Fu riabilitato dopo la morte di Stalin e quando i carrarmati sovietici soffocarono la primavera praghese si decise finalmente a rendere pubblico il suo dramma. Oggi un’altra confessione ci ricorda che anche nelle sue forme più farsesche, ma pur sempre tragiche, la storia tende maledettamente a ripetersi.