Le parole e l'uso (morigerato) che ne facciamo. Abbiamo perso di vista gli aggettivi, tesori inestimabili che ci intimidiscono
La timidezza con cui attingiamo al ricchissimo vocabolario della lingua italiana può essere equiparata alla flotta navale che va in battaglia col canotto, o a una romantica cena a lume di candela, ma consumata in solitaria: manca qualcosa, o qualcuno, che arricchisca l'incontro, gli dia poesia e contenuti, lo renda meritevole di essere vissuto e ricordato. Se poi nello scoramento soffiamo anche sulla fiammella – flebile compagnia che illumina la nostra solitudine – non ci resta che lavare il piatto e andarcene a dormire.
Parte proprio dall'immagine di una fiamma, la morigeratezza nel prendere possesso della lingua e darle l'aria che meriterebbe e per la quale è stata costruita: è il fuoco dei sentimenti, delle sensazioni, dei colori cui nel vivere quotidiano abbiamo deciso di fare a meno. La causa, direbbe probabilmente un sociologo, è nella generalizzata omologazione dei comportamenti, nell'atrofizzazione dei sentimenti espressi, nei mille bavagli imposti dalle convenzioni, nella paura o nell'incapacità di esporci, di metterci a nudo, di dare un verde, un rosso e un blu al grigio che impera nelle comunicazioni interpersonali, dove le “distanze sociali” le abbiamo poste molto prima di quelle fisiche con cui abbiamo oggi a che fare.
Abbiamo perso di vista gli aggettivi. Può capitarci di incontrare una persona molto contenta, ma difficilmente la definiremmo radiosa. Quella molto arrabbiata non sarà furente, o furibonda, o inferocita. Dallo scrigno del vocabolario estraiamo tanta bigiotteria (in gran parte di scadentissima fattura) ma ci guardiamo bene dal prendere in prestito i moltissimi tesori a nostra disposizione. L'uomo deciso può essere spavaldo o baldanzoso, quello soddisfatto compiaciuto, quello stupito interdetto, stupefatto, esterrefatto o allibito. Affranto quello molto triste. Li abbiamo, i termini che definiscono esattamente uno stato d'animo, o un atteggiamento. Ma non li scomodiamo.
È, questo, uno dei tanti motivi che spiegano l'importanza della cultura nelle nostre vite: è lì che i caratteri ritrovano pienezza, senso e ruolo determinate parole. A teatro, al cinema o in letteratura riaffiorano le sfumature e tornano a risplendere i colori. Rassicurati dalla finzione, siamo pronti a riammettere giubilo e disperazione, tonfi e trionfi. E ce ne abbeveriamo, così come in musica, dove un maestoso non solo è accettato, ma del tutto adeguato. Si tratta di una questione di impatto emotivo, probabilmente, che giustifica anche il particolare linguaggio sportivo in cui un giocatore reduce da una partita sontuosa, ma persa, può uscire dal campo stremato e frustrato senza che nessuno si scandalizzi.
L'aridità della lingua parlata e scritta rispetto al suo potenziale emerge anche nell'insulto, arte che nell'italiano, come nello spagnolo e nel francese del Québec, trova la massima ospitalità ed espressione a livello mondiale. In un recente “Geronimo” su Rete Due (rieccoci) lo ha spiegato Filippo Domaneschi, autore di un saggio sul tema.
Perché, ad esempio, non definire bifolchi gli scalcinati trumpiani andati all’assalto del Campidoglio? E zoticone, farabutto e mascalzone colui che ne ha spronato i movimenti? Ma sarebbe un mero esercizio di eloquenza, che al massimo, coi tempi che corrono, strapperebbe (forse) un “Lol”.