A Catania il rugby è emancipazione. Un’occupazione che restituisce alla collettività uno spazio abbandonato, fra intimidazioni e assenza dello Stato
Per Morandi le speranze nascono da un grande prato verde. In Sicilia, ai piedi dell’Etna, nascono invece da un rettangolo sterrato con linee di gesso e due porte a forma di H, hanno la forma ovale del pallone da rugby. Nella Catania passata dalle sfavillanti aspettative da "Milano del Sud” a un presente da ultimi posti nelle classifiche di vivibilità, la speranza veste maglie color rosso vivo e porta un nome che nell’immaginario storico collettivo del Sud Italia evoca la ribellione contro il potere calato dall’alto: Briganti. Molto più che una squadra di rugby, soprattutto un progetto di riscatto sociale ed educazione alla legalità tramite lo sport, per bambini e ragazzi che vivono situazioni di disagio sociale.
Il rettangolo sterrato è quello del Campo San Teodoro del quartiere Librino, periferia sud-ovest di Catania, 420 ettari di superficie, oltre 70’000 abitanti. Nato negli anni ‘70 per essere, nell’idea dell’archistar giapponese Kenzo Tange, una “New Town” residenziale, successivamente, anche a causa del forte inquinamento acustico dovuto al vicino aeroporto, è stato snobbato e poi destinato all’edilizia popolare, quindi fagocitato nell’arcipelago delle periferie urbane, con i loro endemici problemi: niente spazi di aggregazione, servizi inesistenti, e una diffusa criminalità, soprattutto per quanto riguarda lo spaccio di droga.
Il San Teodoro era parte di un complesso costruito per le Universiadi del 1997 assegnate alla Sicilia. Il terreno di gioco, però, non vedrà mai rotolare neanche un pallone: finiti i soldi, l’impianto, già rifinito per buona parte, non venne completato, le gare furono spostate altrove e il complesso fu abbandonato e saccheggiato: impianti elettrici, caldaie, suppellettili, la palestra arredata, fu completamente ripulita.
Parte da qui nel 2006, la storia dei Briganti (e delle Brigantesse, la squadra femminile), dal centro culturale Iqbal Masih, radicato a Librino fin dal 1995 e luogo di aggregazione minorile grazie alle attività culturali e al doposcuola per i bambini. L’idea è di educare alla legalità e dare un’alternativa di vita diversa ai ragazzi tramite lo sport, e la presenza del campo sembra prestarsi allo scopo, evitando le complicazioni di spostare decine di ragazzini, con i mezzi privati, da un campo all’altro della città. «Noi abbiamo fatto una campagna e raccolto 7000 firme con una petizione che chiedeva che il comune intervenisse per gestire o affidare a qualcuno l’uso dell’impianto», racconta Piero Mancuso, uno dei fondatori del club e allenatore dell’U-17. «Ma il Comune fece orecchie da mercante». Finchè, il 25 aprile del 2012, data simbolica della festa italiana della Liberazione dal nazifascismo, dopo un tam tam sotterraneo, i Briganti, insieme ad altre associazioni del quartiere e a buona parte della popolazione, entrano nel campo San Teodoro, subito ribattezzato Liberato.
«Sembrava che l’impianto fosse stato bombardato», racconta Piero, «C’erano due enormi palestre con spogliatoi e la spianata del campo d’allenamento, mentre il campo da gioco di calcio era addirittura utilizzato come pascolo da alcuni pastori.
I Briganti si mettono al lavoro, procedono per cantieri, pezzo per pezzo: il campo, le palestre, e il locale ufficio, inaugurato dopo un anno come clubhouse intitolata a Peppe Cunsolo, uno dei tanti ragazzi persi nei vari giri della squadra senza un campo, fagocitato da ambienti a rischio morto a 13 anni in un incidente dai contorni mai chiariti. Ma come ha reagito il Comune di fronte all’occupazione del Campo? «È rimasto silente. Ma», ci tiene a precisare Piero, «noi abbiamo fatto un’occupazione con caratteristiche diverse da un centro sociale: non abbiamo fatto altro che rimettere in funzione una struttura costruita con soldi pubblici, per fare ciò per cui era stata nata. Abbiamo rivalorizzato un investimento pubblico». Tanto che, appena un anno dopo, la Federazione italiana Rugby (Fir) omologava il campo per le partite ufficiali, ancor prima che i Briganti ne ottenessero ufficialmente dal Comune l’uso, concesso poi nel 2015 dalla successiva amministrazione.
Attorno al rugby sono poi sorti progetti di altro ambito, come gli orti urbani coltivabili liberamente su richiesta e utilizzati al momento da 70 persone, e la Librineria, una vera e propria biblioteca con servizi di prestiti, consultazione, attività legate alla lettura e doposcuola per bambini. Esperienze che si sono poi estese al territorio, con laboratori in tutte le sei scuole del quartiere. «È una rete abbastanza solida, ma il quartiere è enorme, siamo conosciuti ma dobbiamo sempre rinnovare l’informazione sulle nostre attività e intercettiamo continuamente nuovi ragazzi» spiega Mancuso.
Ma, come in ogni contesto difficile, gli ostacoli sono tanti, il primo è di natura ambientale: «Ci scontriamo con determinate dinamiche perchè facciamo un lavoro educativo che non piace a qualcuno». Quel qualcuno che negli ultimi anni ha messo in atto una serie di atti vandalici e intimidatori: i più recenti, vari furti di materiale e l’incendio del pulmino della squadra, ricomprato in breve tempo grazie a una colletta nazionale. Il più drammatico, il rogo doloso che nel gennaio 2018 ha distrutto la Club House e la Librineria: un evento che ha scatenato un’ondata di solidarietà in tutta Italia, con la visita al Campo San Teodoro di personalità del mondo sportivo e politico, e che ha visto rinascere nel giro di due mesi la nuova Club House, ora intitolata a Giuseppe “PippoPeppe” Mastroeni, il numero 23 portato via 5 anni fa da un brutto male, e la Librineria, anche con un contributo di libri dal Ticino.
Anche i rapporti con le famiglie dei ragazzi delle squadre giovanili non sono sempre facili. «Manca spesso una formazione genitoriale, problema diffuso non soltanto a Librino ma in quasi tutti i contesti difficili. Si tira spesso a campare, a volte lo sport viene visto come un lusso, i genitori spesso non seguono i ragazzi nell’attività e anzi a volte li incoraggiano a non partecipare, perché servono a casa per…altre cose che ragazzi di 12-13 anni non dovrebbero fare Non si comprende che lo sport come lo vogliamo fare noi serve a preparare i ragazzi alla ricerca di altre strade che non siano quelle che sembrano scontate per chi abita qui»
«Ma sono ostacoli che abbiamo messo in conto e possiamo affrontare» prosegue Piero «Le vere difficoltà sono legate soprattutto alla lontananza delle istituzioni. Ne è un esempio l’attuale situazione del campo: i lavori di ristrutturazione dovevano durare 4-6 mesi ma sono fermi da due anni, manca solo la posa del manto sintetico. Siamo ripartiti in punta di piedi dopo la pandemia, dopo due anni a singhiozzo abbiamo riaperto quest’anno con le categorie giovanili azzerate, iniziamo ora ad avere numeri importanti, anche se lontani dai 400 tesserati pre-pandemia. Ma senza un nostro campo è difficile».
Sulla questione del campo, l’assessore allo Sport del Comune di Catania, Sergio Parisi, spiega a LaRegione: «È vero, i lavori hanno avuto qualche difficoltà iniziale, si trattava comunque di un progetto importante di adeguamento del campo per poter ospitare anche partite di categoria superiore, come chiesto dalla Fir. I lavori sono andati a singhiozzo, ci sono stati ovvi rallentamenti dovuti alla pandemia, e la ditta affidataria dei lavori ha avuto delle difficoltà, legate soprattutto all’aumento dei prezzi dei materiali e alle attuali difficoltà di reperimento. Per questo ai Briganti è stata concessa una proroga di tre anni dell’affidamento del campo, nel frattempo scaduto, proprio in quanto non era stato possibile utilizzarlo a causa dei lavori». Il Comune si è mosso? «Più volte, come assessore allo Sport insieme al direttore delle Manutenzioni, ho incontrato la ditta per fare il punto e far pressione il più possibile. Certo, dall’esterno viene da chiedersi perchè non trovare un’altra ditta» spiega Parisi, «ma in questi casi mettere in mora l’impresa e affidare i lavori ad altri vuol dire in sostanza dover ricominciare da capo con la procedura di assegnazione e quindi allungare notevolmente i tempi: dunque conviene quasi aspettare e sperare che tutto si risolva per il meglio e in fretta». Intanto, nei giorni scorsi la situazione si è finalmente sbloccata con l’arrivo al San Teodoro dei primi Tir di materiale e la ripresa dei lavori.
Ma quella sul campo non è l’unica critica dei Briganti verso le istituzioni. «Non viene compresa l’importanza di un presidio come il nostro all’interno del quartiere, e non è qualcosa che risolvi solo con un bando di affidamento della struttura. Manca qualsiasi tipo di sostegno, non tanto economico, non è quello che chiediamo, ma anche solo a livello logistico o di sicurezza del territorio, fosse anche solo per la raccolta differenziata: l’avevamo iniziata, poi ci han tolto i cassonetti». È un fiume in piena Piero, sul tema «Un territorio come questo ha bisogno di una forte presenza delle istituzioni, che invece sono del tutto assenti: le periferie come Librino sono sempre state considerate terreno di caccia elettorale dalle amministrazioni locali del sud Italia, la cui qualità è spesso scadente, con una classe politica impreparata e inadeguata. A ciò si aggiunge il fatto che non rispondiamo alle logiche tradizionali di “do ut des” non scritto di molte associazioni che lavorano con le istituzioni: il fatto che la tale amministrazione o l’altra ci conceda il campo non implica che noi la sosterremo automaticamente. Abbiamo idee legate alla solidarietà, all’antimafia, alla redistribuzione: una posizione socio-politica che non piace e aumenta la distanza da alcune amministrazioni»
Ci sono stati conflitti con il Comune nei tre anni fra la liberazione/occupazione del San Teodoro e la sua concessione? «L’amministrazione si è accorta dell’esistenza di questo posto dopo che l’abbiamo liberato dall’incuria e dall’abbandono» chiarisce Piero. «Non c’è stato confltto perché da un punto di vista comunicativo e mediatico aprire un conflitto con chi aveva rimesso in funzione quel posto sarebbe stato un suicidio politico. Primo, perché eravamo lontani dagli occhi e non in centro, un po’ gli sfigati che andavano a occupare il posto più sfigato della terra. Poi, perché nel giro di un anno il campo è stato omologato per lo svolgimento delle partite, è diventato un luogo della comunità rugbistica siciliana. Come facevi a dire “fermiamo questa cosa”? Non era politicamente e civicamente possibile» Quindi una situazione di fatto tollerata. «Non poteva non essere tollerata perché il tipo di attività che si faceva era quella che sarebbe dovuta essere svolta dalle istituzioni. I Briganti hanno fatto semplicemente emergere il luogo dal degrado e l’hanno riportato in funzione. Avevamo una partecipazione enorme alle spalle, centinaia di ragazzi, la petizione con 7000 firme, c’era dietro un’intera comunità. Altre occupazioni hanno dinamiche diverse, quello che abbiamo fatto noi era inattaccabile. Come fai a dire “fermati” a chi permette di praticare sport nel luogo adeguato e gratuitamente?». Dal punto di vista finanziario, è bene dirlo, i Briganti si fanno carico di tutte le utenze, ricavando i fondi dall’autotassazione dei soci, da attività culturali e ricreative al campo, e da qualche sponsor.
Uno sforzo che, al di la dell’aspetto sportivo, porta al riscatto sociale. «Siamo coinvolti in molti progetti a livello socioeducativo, tramite i quali facciamo completare ai ragazzi il ciclo di studi e troviamo qualche lavoretto. Alcuni di quelli che hanno iniziato a 10-11 anni ora allenano i più piccoli e vanno all’università: magari qualcuno che si è formato giocando a rugby con noi, domani insegnerà educazione fisica. Questo per noi è il massimo traguardo: avere costruito percorsi diversi per quelli che sembravano gli ultimi della società»