Stranamente, ma forse non tanto, i nostri giornali utilizzano sempre più espressioni militari quando riferiscono di temi che con la guerra non hanno nulla a che vedere, che si tratti di sport, di politica locale o altro.
Mi ha colpito in particolare il titolo principale del settimanale momò ‘L’Informatore’ del 10 maggio 2024: “Val Mara: due fronti in battaglia”. L’articolo non riferisce della situazione in Ucraina o a Gaza, ma di un dibattito democratico che anima il giovane Comune di Val Mara a proposito del progetto di istituto per anziani.
Le parole contano più di quello che si potrebbe pensare nell’improntare le opinioni comuni, specie se si tratta di parole scritte dalla stampa o dette da giornalisti radiofonici e televisivi.
Stiamo vivendo un periodo inquietante di conflitti armati vicini e lontani. Purtroppo, i linguaggi guerreschi contribuiscono a relegare ai margini del dibattito pubblico modi di esprimersi e pensieri orientati alla pace e a visioni alternative a quella prevalente, secondo la quale i conflitti tra Stati e popoli possono essere gestiti solo con la forza devastante delle armi e degli eserciti. Invece di lasciarci tutti precipitare nel vortice della guerra dovremmo darci da fare per prevenire ulteriori conflitti armati, per promuovere forti iniziative diplomatiche, per dare voce ai movimenti nonviolenti che in situazioni di conflitto hanno attivato delle collaborazioni e delle intese tra nemici e per immaginare metodi di difesa della popolazione civile alternativi o almeno complementari a quelli dell’esercito (“difesa popolare nonviolenta”).