«Penuria» oggi è la parola più sentita, nella politica svizzera. L’abbiamo sentita nei dibattiti sull’energia, sulla situazione idrologica, sui farmaci essenziali e, ovviamente, sulla manodopera. A quest’ultimo proposito, fin dall’inizio dell’anno scolastico 2022/2023 molti Dipartimenti cantonali dell’educazione si sono trovati in gravi difficoltà. La scarsità di docenti ha obbligato, per esempio a Zurigo, ad assumere anche persone che non possedevano le qualifiche necessarie per gestire una classe.
Anche se la situazione sembra migliorata, l’imminente pausa estiva ha riacceso la discussione. Alcune voci, in modo pertinente, hanno osservato che la penuria di docenti non è legata tanto a un calo delle vocazioni. Piuttosto, il problema è l’aumento dei casi di persone che si disinnamorano del mestiere – e quindi decidono di ridurre la percentuale lavorativa, o addirittura di abbandonarlo.
In Ticino la crisi non è acuta come altrove in Svizzera, e insegnare rimane una professione ambita – ma un politico sa che ogni vantaggio va sfruttato, per anticipare un eventuale degrado della situazione. Purtroppo, però, da anni nel nostro Parlamento si parla di formazione ascoltando poco, o per nulla, chi ogni giorno vive e lavora nelle nostre aule. Questa disattenzione non ha solo aumentato la distanza fra chi decide sulla scuola e chi, invece, la scuola la fa. Peggio ancora, ha concentrato l’attenzione politica su dettagli irrilevanti, e fatto perdere di vista questioni di fondo che sono evidenti a chi passa le sue giornate occupandosi nelle classi e di ciò che avviene intorno agli allievi.
In questi 12 anni come responsabile politico di un istituto scolastico comunale con 900 allieve e allievi, ho visto tendenze che mi preoccupano. Gli insegnanti – persone insostituibili nel formare le nuove generazioni – si sentono confrontati, con frequenza crescente, con un clima ostile da parte delle famiglie. Non c’è da stupirsi, perciò, se alla prima occasione utile molti fra loro decidono di andarsene.
Proteggere la scuola è oggi una priorità assoluta, ma non passa soltanto da richieste sindacali, aumenti di organico o riduzione del numero di allievi per classe. Non basta restare chini sui numeri. La politica deve anche ricordare alla popolazione, con la dovuta fermezza, che l’istruzione pubblica non è un servizio commerciale. Dobbiamo tornare a esigere rispetto per gli insegnanti. Se rinunciamo a educare i genitori su questo tema, stiamo venendo meno ai nostri doveri di amministratori – e la fattura arriverà, puntuale e salatissima, sotto forma di abbandoni della professione.
Come politici, è nostro compito ripeterlo con chiarezza inequivocabile: la scuola non è un buffet à la carte né una Landsgemeinde. Non possiamo consentire che venga trattata come un’entità negoziabile in cui selezionare solo gli aspetti che ci soddisfano personalmente. La scuola rappresenta un pilastro fondamentale per la formazione dei nostri giovani e ne dipende in larga misura la crescita di cittadini consapevoli e responsabili.
Prima ancora di essere un diritto universale, la nostra scuola si chiama pur sempre «dell’obbligo» – e non è per caso. Come politici, dobbiamo assicurarci che nei suoi confronti non venga mai a mancare il giusto approccio. Finché consentiremo equivoci sul ruolo della scuola come istituzione e sulla nostra volontà di tutelare i docenti e il clima in cui lavorano, la qualità dell'insegnamento non potrà che risentirne.