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Monte Verità, la cucina democratica di Pietro Leemann

Tra gli appuntamenti degli Eventi letterari, il cibo vegetariano dello chef ticinese che riprende la tradizione del Monte Verità

22 marzo 2024
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Tra tutti, era probabilmente l’aspetto meno bizzarro della comunità che all’inizio del Novecento si trasferì all’allora Monte Monescia sopra Ascona: era raro, almeno tra le persone povere, avere carne a tavola. Ma i “balabiott” del Monte Verità erano anche vegetariani, tassello di una più ampia concezione della natura e dell’esistenza umana che potremmo definire utopista, teosofica, naturista e via discorrendo.

Il vegetarianismo non nasce ovviamente al Monte Verità, ma è ugualmente un luogo storicamente e simbolicamente importante per questa scelta alimentare e di vita. Un ‘genius loci’ che gli Eventi letterari Monte Verità non potevano trascurare e così, nei giorni del festival – venerdì (solo per pranzo), sabato e domenica – ci sarà modo di assaggiare la cucina vegetariana di Pietro Leemann, chef ticinese fondatore del Joia di Milano, primo ristorante vegetariano in Europa premiato con la stella Michelin nel 1996. «Credo sia una cosa buona avere una coerenza tra le offerte culturali e quelle di cibo, in armonia con il luogo e la sua storia» ci ha spiegato Leemann.

Pietro Leemann, oggi una dieta vegetariana è sostenuta e praticata anche da chi non si riconosce nella visione del mondo del Monte Verità. Posso chiederle quanto lei si sente vicino a quegli ideali?

Mi sento vicino, perché era presente non solo l’aspetto per così dire naturalistico ma anche quello spirituale: per gli abitanti del Monte Verità si trattava di una ricerca di sé stessi, di un percorso mistico e non solo fisico. Mi riconosco in questa idea perché per me il cibo che scegliamo di mangiare ci trasforma. Quindi la nostra aspettativa su chi vorremmo essere si concretizza attraverso il cibo.

Il cibo è un elemento molto importante. E questo in particolar modo per la scelta vegetariana perché implica la nonviolenza, la pace, l’amore, il rispetto. Ovviamente la mia cucina ha un linguaggio che parla con la società contemporanea, non con gli abitanti del Monte Verità di quel tempo: la loro era una cucina estremamente frugale e un po’ settaria, mentre la mia è una cucina democratica che vuole avvicinare le persone al mondo vegetariano, una cucina sana ma sempre buona.

Gli ideali sono gli stessi, ma è cambiato il modo di viverli.

I primi movimenti vegetariani erano molto frugali, c’era un igienismo alimentare che dava poco spazio all’aspetto del piacere, era quasi un po’ punitiva.

Oggi serve un linguaggio più democratico e magari il cibo che propongo porterà al Monte Verità persone che non sarebbero venute solo per gli incontri letterari. Diciamo un approccio culturale alla cucina che non è fine a sé stessa ma abbraccia altre forme di espressione poetica.

Lei ha parlato di cucina democratica. Ma la cucina vegetariana lo è davvero? Spesso la carne costa meno della verdura.

Lei ha ragione. Il fatto è che la carne costa troppo poco, quello che vediamo non è il suo prezzo reale, ma un prezzo che non tiene conto dei costi dell’impatto ambientale, dei costi della sofferenza animale, dei costi per la salute delle persone. Se questi costi non vengono presi in considerazione, arriviamo al paradosso che la cucina sana costa di più di quella non sana.

C’è tuttavia una cosa che può rendere la cucina vegetariana più economica: cucinare da sé. È una cosa che vediamo anche nel negozio che abbiamo aperto a Locarno: all’inizio quando una persona decide di diventare vegetariana cerca dei prodotti che siano dei sostituti della carne o del pesce. Ma nella fase successiva si mette a cucinare e questo è molto importante. Perché cucinare è bellissimo, è creativo e l’espressione migliore creativa arriva dal vegetale, con tutti i condimenti, con le olive, i capperi, i pomodori secchi, le spezie, le erbe aromatiche.

Bisogna anche avere il tempo per cucinare.

Bisognerebbe darsi mezz’ora di cucina per ogni pasto, esclusa ovviamente la colazione che è più veloce. Per metterci meno tempo bisogna per forza ricorrere a sostituti, a cose già pronte – e questo vale anche per il mondo onnivoro, non solo per i vegetariani.

Cucinare è una forma di comunicazione verso chi poi mangerà quel piatto, una relazione alla quale manca un pezzo se prendo un piatto già pronto.

Secondo lei c’è una certa diffidenza verso le diete vegetariane e vegane? Alcuni sembrano considerarle una imposizione…

Diciamo che dal mio punto di vista il proselitismo non va mai bene. A me piace pensare a un movimento verso il vegetarianismo, perché ci sono persone che sono completamente vegetariane ma anche persone che mangiano carne solo occasionalmente. E secondo me questo movimento deve essere una scelta naturale, parte di una trasformazione che sta avvenendo nella nostra società che sta diventando più ecologica, più vegetariana, più rispettosa degli animali. Ma è una evoluzione naturale che non ha bisogno di imposizioni.

Personalmente sono contrario a certi eccessi come il voler costruire la carne con le cellule. Per me sono degli esercizi inutili: non è quello il senso della trasformazione, ma è una cosa legata al business del commercio.

Ma in che misura un ristorante stellato come il Joia rientra in questa dimensione di trasformazione della società e di cucina democratica?

Diciamo che il Joia è un po’ il tempio della cucina vegetariana, un luogo molto frequentato che comunque offre, a pranzo, anche dei menu che sono molto abbordabili. Quando ho aperto il Joia sapevo di dover creare qualche cosa di prezioso: il Joia ha avuto bisogno di diventar famoso perché la cucina vegetariana si affermasse. Quello è il primo passo, al quale devono seguire altri passi più semplici, più accessibili e ad esempio nel negozio che ho aperto a Locarno con mia figlia proponiamo anche del cibo take away.

È importante che la cucina vegetariana sia democratica, accessibile a tutti e non solo a una élite che può permettersi di farlo.IAS

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