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Dal sonno dogmatico alle scienze cognitive

A trecento anni dalla nascita di Immanuel Kant, scopriamo come la sua filosofia trascendentale sia stata recepita dalle neuroscienze

Giorgio Vallortigara: “Se Kant fosse vivo oggi farebbe il neuroscienziato” (depositphoto)

A trecento anni dalla nascita di Immanuel Kant, scopriamo come la sua filosofia trascendentale sia stata recepita dalle neuroscienze

23 aprile 2024
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Un giorno Immanuel Kant lesse David Hume e la sua vita non fu più la stessa – soprattutto, la storia della filosofia non fu più la stessa, perché da quelle letture arrivò, dopo una riflessione di oltre dieci anni, la ‘Critica della ragion pura’, pubblicata nel 1781 quando il filosofo aveva già 57 anni.

Hume portò a quello che lo stesso Kant definì “risveglio dal sonno dogmatico”, i cui sogni erano la metafisica dei filosofi tedeschi Gottfried Leibniz e Christian Wolff e, più in generale, il razionalismo con la sua idea che la ragione possa essere la fonte di ogni conoscenza. Lo scozzese Hume interruppe questo sogno – del quale Kant, peraltro, aveva già presenti i limiti – sostenendo non solo che ogni conoscenza nasce dall’esperienza, ma anche che questa conoscenza è incerta e fallibile, derivando semplicemente dalle regolarità osservate in natura. Kant prese sul serio questo argomento – in quegli anni gli amici lo chiamavano “lo Hume tedesco” – e cercò una soluzione: la filosofia trascendentale, l’idea che la conoscenza nasca dall’unione tra schemi a priori, che precedono quindi l’esperienza, e l’intuizione sensibile. L’intelletto senza intuizione sensibile è vuoto; l’intuizione sensibile senza intelletto è vuota.

Con la ‘Critica della ragion pura’ Kant rispose alla domanda “come facciamo a conoscere il mondo?”. Domanda che, nei trecento anni che ci separano dalla nascita di Kant, non è più affrontata esclusivamente dalla filosofia. «È un problema centrale, forse il più importante di tutti, delle neuroscienze» ha spiegato Giorgio Vallortigara, professore di Neuroscienze al Centre for Mind-Brain Sciences dell’Università di Trento e autore di numerosi saggi, tra cui il recente ‘Il pulcino di Kant’ (Adelphi 2023), con il quale procediamo il nostro percorso per i 300 anni dalla nascita del filosofo tedesco iniziato con la professoressa Silvia De Bianchi.
«Kant, per come l’ho inteso io, afferma che la conoscenza non dipende solo dall’esperienza sensoriale del soggetto – essere umano o, come è il caso dei miei studi, organismo animale – ma è influenzata anche dalla struttura che possiede la mente» ha aggiunto Vallortigara. «Quando vediamo un oggetto noi ricaviamo dall’esperienza che questo oggetto possiede determinate proprietà, ma questa esperienza è possibile perché possediamo certe categorie innate».

Kant è stato presente nei suoi studi?

Nel mio libro ‘Il pulcino di Kant’ racconto che quando ero un giovane ragazzo e dovevo decidere cosa studiare all’università, avevo le idee molto confuse perché mi piacevano tante cose. Avevo però in testa questa domanda molto generale: come conosciamo quello che conosciamo?

Non sapevo bene cosa fare della mia vita, cioè che cosa andare a studiare finché non arrivò il mio “libro galeotto”, perché tutti noi abbiamo avuto, negli anni della formazione, un libro galeotto. Per me è stato un libro di Konrad Lorenz che si intitolava ‘L’altra faccia dello specchio’. E in quel libro troviamo, a un certo punto, una frase fulminante: l’a priori kantiano in realtà è un a posteriori filogenetico.

Sembra complicato, ma quello che Lorenz vuole dire in sostanza è che le categorie innate della mente che secondo Kant consentono l’esperienza certamente non sono apprese dall’individuo durante la crescita, quella fase che noi scienziati chiamiamo dello sviluppo ontogenetico. Ma in un certo senso sono apprese nei tempi lunghi dell’evoluzione biologica guidata dalla selezione naturale, sono il frutto di quello che chiamiamo sviluppo filogenetico. Sono il risultato di una interazione con l’ambiente, non di una interazione tra il singolo organismo e l’ambiente durante il suo sviluppo, ma tra gli antenati di quell’organismo e l’ambiente lungo il corso della storia naturale.

Sappiamo dove andare a cercare le forme di spazio e tempo e le dodici categorie che Kant descrive.

Sappiamo che categorie come quelle di sostanza o di causa-effetto sono già predisposte nella mente e nel cervello e questo perché i primi organismi che hanno abitato la terra, e dai quali discendiamo, si sono confrontati con certe caratteristiche del mondo fisico per le quali è stato indispensabile avere, ad esempio, una nozione di oggetto come qualcosa che ha dei confini, che ha certe caratteristiche.

Kant all’epoca non aveva gli strumenti per fare questo passo, per capire che l’innato è innato come risultato di processi meccanici e ciechi che oggi noi riconosciamo alla selezione naturale. Ma, come ho detto scherzando ma non troppo in alcune occasioni, se Kant fosse vivo oggi farebbe il neuroscienziato.

depositphotoSappiamo che categorie come quelle di sostanza o di causa-effetto sono già predisposte nella mente e nel cervello

Kant non sapeva neanche come le categorie fossero nel nostro cervello.

Per rendere il discorso meno astratto posso fare riferimento ad alcune delle acquisizioni proprio di questi anni. Prendiamo per esempio la nozione di spazio. Noi sappiamo che il modo in cui gli organismi biologici si rappresentano lo spazio è legato, a livello neuronale, all’esistenza di certi circuiti e certi neuroni che sono estremamente specializzati. Ci sono, nell’ippocampo, delle cellule che chiamiamo ‘place cells’, cioè cellule dei luoghi, che si attivano in un determinato luogo. Immaginiamo di prendere un topo e di metterlo in una grande arena e di lasciarlo lì, libero di esplorare, rilevando l’attività dei neuroni. Osserveremo che ogni volta che il topo si trova ad esempio in un certo angolo, uno specifico neurone aumenta la normale frequenza in cui, come diciamo noi neuroscienziati, “scarica”. Ma ci sono anche neuroni che scaricano indipendentemente dalla posizione relativa dell’animale, o a seconda di dove guardi l’animale o ancora cellule che rispondono alla presenza di una parete, di un valico oppure di un precipizio. Ci sono poi altri neuroni che fanno una specie di tassellatura dell’intero ambiente con una struttura esagonale molto regolare e che consentono, quando l’animale si sposta, di segnalare la distanza e la direzione in cui l’animale si muove.

Una struttura molto sofisticata.

Una struttura che uno potrebbe immaginare che emerga come risultato dell’esperienza. Il topolino se ne va in giro, fa esperienza del suo ambiente e i neuroni diventano selettivi per certe proprietà dell’ambiente. Ma non è così e lo dimostrano vari esperimenti: l’attività registrata all’inizio, appena i topi o altri animali – noi abbiamo lavorato molto con i pulcini – cominciano a muoversi nel mondo, è la stessa che si osserva negli animali adulti. Queste cellule sono già pronte per rappresentarsi le proprietà dello spazio.

Secondo lei la filosofia kantiana ha avuto un’influenza in questi studi? Prima abbiamo visto il caso di Konrad Lorenz che citava esplicitamente Kant.

Ci sono dibattiti che hanno un andamento pendolare nella storia della scienza e della filosofia, come questo che oscilla tra l’innato e l’appreso, tra la natura e la cultura. Personalmente credo che la verità stia nel mezzo. E che da questo punto di vista Kant sia stato davvero illuminante, oltre che illuminista: tutti i dati che sono in nostro possesso suggeriscono che quello che chiamiamo “innato” abbia come funzione primaria e fondamentale rendere possibile i processi di apprendimento, e di renderli sufficientemente rapidi.

Può essere, come alcuni cercano di fare con i ‘Large language models’ come ChatGPT, che sia possibile costruire delle macchine che imparano semplicemente sulla base delle associazioni, cioè dell’esperienza, senza avere alcuna struttura di partenza. Però hanno bisogno di un sacco di tempo per fare quella cosa lì e possono incorrere in clamorosi errori, come accade appunto con questi sistemi di intelligenza artificiale. La strada percorsa dall’evoluzione biologica è diversa ed è molto più interessante: i processi di apprendimento associativo ci sono, ma sono guidati da meccanismi innati.

Le faccio l’esempio, che ho studiato, del riconoscimento dei volti. Tutti i piccoli vertebrati che dipendono dalla vista hanno la necessità di imparare le caratteristiche dei loro conspecifici. Un tratto molto importante, ad esempio per i piccoli della nostra specie, è il riconoscimento di che cosa sia in generale una faccia, che costituisce poi la base per imparare a distinguere un volto dall’altro. Quello che abbiamo trovato, un po’ in tutti gli animali che abbiamo studiato fin qui, è che si viene al mondo con già un’idea astratta e generale di che cosa sia una faccia: un tondo con all’interno tre macchie ad alto contrasto, due in alto e una in basso in posizione mediana. L’equivalente delle emoticon, per capirci. Questa struttura è incredibilmente efficiente nell’attrarre l’attenzione dei neonati degli esseri umani di pochi minuti di vita, dei pulcini appena nati, perfino delle tartarughe. In un certo senso questa non è ancora una faccia, è una specie di schema, un’idea platonica di volto.

Schema è un termine che Kant utilizza, nella ‘Critica della ragion pura’, per indicare il collegamento tra le categorie e l’intuizione sensibile.

Disporre di questa predisposizione rappresenta un enorme vantaggio: fa sì che l’attenzione del neonato, di tutte le cose che ci sono nel mondo, sia rivolta a quelle che hanno due macchie sopra e una sotto e che con elevata probabilità – non la certezza ma una elevata probabilità – sarà il volto della mamma e non un sasso o un albero. Questa predisposizione offre l’opportunità di apprendere le caratteristiche dei volti dei propri cospecifici molto più rapidamente che se prestassimo attenzione a tutti gli stimoli del mondo.

Questi meccanismi innati sono necessari e fondamentali per l’apprendimento, non contro di esso. L’empirismo e l’innatismo non sono contrapposti. Lorenz stesso parlava di “innata maestra elementare”, cioè di qualcosa che ti prende per mano, ti guida e rende più facile l’apprendimento.

depositphotoCi sono dibattiti che hanno un andamento pendolare nella storia della scienza e della filosofia, come questo che oscilla tra l’innato e l’appreso, tra la natura e la cultura. Personalmente credo che la verità stia nel mezzo. E che da questo punto di vista Kant sia stato davvero illuminante, oltre che illuminista

La filosofia di Kant, così legata alla fisica newtoniana e alla geometria euclidea, sembrava smentita dai progressi scientifici successivi – grosso modo dalla relatività, dalla meccanica quantistica, dalle geometrie non euclidee. Le neuroscienze, invece, paiono “salvare” Kant.

Credo che sia necessario distinguere tra le nostre intuizioni, e cioè il modo in cui data la nostra biologia noi intuiamo lo spazio, il tempo, il numero eccetera, e i nostri concetti scientifici che si sono sviluppati nel corso della storia della conoscenza. Oggi la fisica moderna è lontanissima, nella sua descrizione del mondo, dalla nostra intuizione e in certi ambiti lo è in maniera, per così dire, drammatica. La fisica dei quanti è difficile da capire per i profani, non solo perché richiede tanta matematica, ma perché è controintuitiva. Ed è controintuitiva perché noi ci siamo evoluti interagendo con oggetti che hanno certe dimensioni e certe durate temporali.

Ci vuole allenamento per comprendere i tempi lunghissimi della geologia o della biologia evoluzionistica o le dimensioni piccolissime dei Quark. E proprio il fatto che ci vuole allenamento, che servono molti anni per formare un fisico, un geologo e così via, dimostra che Kant aveva ragione.