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Sant Jordi, un fiore e tre libri

Chi non sia stato a Barcellona il 23 aprile comprenderà a fatica come una città possa fiorire di letteratura. A questo proposito, tre dei titoli fioriti

Barcellona, 23 aprile di ogni anno
(Keystone)

Le strade di Barcellona scendono dal Tibidabo verso le circonvallazioni e poi verso l’Ensanche, dove si intrecciano in un reticolo larghissimo e ordinato. Alcune vanno verso il mare. Ma tutte le strade sono come fiumi. Sempre uguali da secoli, solo più alte per le lastricazioni successive. Ognuna con la sua storia, singolare come quella delle persone e delle parole. La strada-fiume più nota di Barcellona è la Rambla, che è una ma cambia nome cinque volte. Nella mappa che ho davanti è lunga come il tappo della bic senza la linguetta. Calcolo un paio di chilometri ma è meno di un chilometro e mezzo. Scrive Vila-Matas in un racconto-ricordo di due anni fa: “Continuando a scendere sono ormai vicino all’Arc de Triomf, dove svolterò per raggiungere la parte finale delle Ramblas che un tempo rappresentavano tutto, per me e per tutti. Era l’epoca in cui gente terribilmente locale costituiva l’unico spettacolo per se stessa, un grande fiume di umanità che scendeva verso il mare”.

Questo articolo sarà solo un tentativo di commento culturale. Chi non sia stato a Barcellona un 23 aprile comprenderà a fatica. Più ancora se chi scrive non saprà esprimere (cosa che sa già) che succeda in quel giorno e soprattutto come. La città si riempie di libri e rose e persone che ci passano in mezzo, nell’assenza più totale, in interviste, presentazioni, dialoghi, di ciò che accompagna i libri ovunque: pedanteria e petulanza. Due belle doti che iniziano per P; se aggiungiamo prosopopea, tre.

Una festa che si è fatta quasi da sé e trovando appunto il terreno più fertile. Fra tre anni ne farà cento, ma nasce all’ombra della leggenda di San Giorgio e del drago che è medievale. Secondo una versione della leggenda, dal sangue del drago sono nate rose. Lo scrittore valenziano Vicent Clavel propose una festa del libro, che all’inizio si celebrò il 7 ottobre (1927). Nell’edizione del ’29, già passata al 23 aprile, i librai montarono banchi davanti alle librerie e da allora non si è più smesso. Quest’anno, tre chilometri dal quartiere di Graçia fin quasi al mare attraversando il Passeig de Graçia, plaça Catalunya e le Ramblas come un unico lungo viale. E il fiume inonderà molte strade laterali. Di cosa si componga la qualità della festa di Sant Jordi, nata come “degli innamorati”, cinque secoli fa, e cresciuta come “degli innamorati e dei libri” nel secolo passato, non si può dire senza rischiare il generico o la retorica. Tra me e me la chiamo civiltà.

Ora tre micro-recensioni, perché quando si parla di libri, se mi è permessa la tautologia, si parla di libri. E questo è il primo.

Un angolo di mondo

L’Eva Baltasar di oggi appare diversa da quella dell’uscita del suo primo romanzo, Permagel (2018; in italiano da Nottetempo), la vera rivelazione. La sua vena rientra nell’ambito della “durezza”. Per fare un nome noto a tutti, quello di Annie Ernaux: un tono giusto, dati i tempi, buono e attraente anche se ormai di moda. I capelli della Baltasar si sono allungati di molto, l’espressione si è addolcita. Cinque anni fa gli spigoli erano più visibili. Perché è evidente che le storie che vanno più al fondo sono storie personali. E l’autrice presta alla protagonista di Ocàs i fascinació (Club Editor) i suoi stessi studi (di pedagogia) uno dei lavori della sua vita (domestica) e un’esperienza vissuta, seppure per caso e fugacemente, in prima persona: restare senza tetto. Ma la finzione va più in là e rende più angosciosa la vita della protagonista (che non ha nome). Riesce però a ritagliarsi un angolo di mondo – “il proprio pianeta all’interno del nostro pianeta inevitabile” – nelle case degli altri, un angolo suo e non suo. Mentre le pulisce e riordina, tocca, attraverso quel che tocca e vede, il loro mondo. Perché il suo gli è scivolato via. “La linea che separa il mondo della sicurezza dalla più grande vulnerabilità è sottile. Oggi sei qui, domani dall’altro lato. Prima scendevi la scala un gradino alla volta, ora ne fai cinque in un colpo”. Così dice l’autrice. E la sua protagonista: “Volevo smettere d’esistere senza morire”.

Steinway e figli

Ramon Gener è uno dei divulgatori più accattivanti che si possano incontrare nelle televisioni in giro per il mondo, dato che i suoi programmi, ‘This is Art’, ‘This is Opera’, hanno successo ovunque. Rigore più leggerezza più talento di narratore. Più la calamita della simpatia. Gener comprò un piano molto malmesso ma voleva proprio quello, uno Steinweg. Nome non così difficile, ma quando il signor Heinrich Steinweg emigrò dalla Germania negli Stati Uniti, all’anagrafe si decise che era meglio Steinway. Gener non desiderava avere uno Steinway, la marca più nota e diffusa di pianoforti, ma un pezzo della sua preistoria. Al momento di restaurarlo, trova il numero di serie: 31887, da cui scopre data (1915) e luogo (Germania) di nascita, e una lista di nomi: i precedenti proprietari. Si mette in macchina e inizia un viaggio che si rivelerà una storia europea del ’900. O una storia degli europei. Da un possessore all’altro, dalla Germania alla Francia, all’Inghilterra alla Polonia si accorge che la storia del suo piano è quella di tutti. L’impulso di raccontarla è venuto dopo (Història d’un piano, Columna) o lungo la strada, ma non poteva restar solo “sua” la storia del suo piano. E ora quando lo chiude, la sera, e gli dà la buonanotte, o lo apre per poter iniziare la giornata, ogni mattina, può farlo con una consapevolezza ancora più emozionata.

‘Fuoco’ sta per ‘catastrofe’

Carlota Gurt dice che i sogni non restano nel recinto della notte. Dice che fa sogni in serie che analizza da sola. Per mesi e mesi non sognò che ogni tipo di veicolo. Macchine, moto, betoniere, taxi, furgoni, barche... “Qual è la ragione? Probabilmente perché non so dove vado né come”. Questo per metafora, nella sua vita reale invece vive una settimana in provincia, in una casa grande con tre figli, e una settimana a Barcellona, in una casa piccola. Dalle finestre della casa grande vede un bosco, “come se l’umanità intera fosse sterminata”. (Qui si nota il peso diverso delle parole scritte. Mentre le dice invece, sorridendo, metà del dramma sparisce). Dice anche che “scrivere è una maniera di filtrare”. E che nei 14 racconti di Biografia del foc (Proa) il fuoco sta per catastrofe, più o meno. Nella precarietà in cui si ritrova la protagonista di Ocàs i fascinació scivolando per un piano molto inclinato, i suoi personaggi vi si ritrovano per scelta, con un taglio netto, distruggendo per provare a ricostruire, “pur tra sacrifici e ferite”. Dice che è un libro sull’incertezza, con la quale occorre riconciliarsi perché la vita è incerta e tutti ci camminiamo dentro fragili. Ma “dalle crepe” può uscire qualcosa che ti salva. O dalle crepe fuggi. Dice che dove appaiono uccelli, nei racconti, sono immagine di quel che è vulnerabile ma può volare.

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