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Gli infernali ‘Seven Winters in Tehran’

In concorso nella sezione Young, un documentario devastante girato in nome della difesa dei diritti umani che in alcuni Paesi sembrano ancora facoltativi

Reyhaneh Jabbari
24 novembre 2023
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‘Seven Winters in Tehran’, documentario della regista tedesca Steffi Niederzoll, non è solo un pugno sulla bocca dello stomaco dello spettatore ma anche un monumento ai diritti umani – specialmente a quelli legati alle donne – che non nasconde una visione pessimistica sulla paradossale mancanza di umanità della nostra specie. Un film girato di nascosto, dal finanziamento interno impossibile alla base, vista la pesante critica che vuole trasmettere a gran voce; un ritratto spietato che denuncia un sistema marcio nelle sue fondamenta di giustizia e di concezione delle leggi, che rende facile essere incarcerati ingiustamente, dove uno stupratore diventa un martire e dove la vittima è costretta ad assumersi una colpa che è impensabile attribuirle, un danno insanabile che precede una beffa incomprensibile.

Il documentario, caratterizzato da interviste, miniature e immagini d’archivio, racconta un caso giudiziario diventato di interesse internazionale, quello di Reyhaneh Jabbari, arrestata a 19 anni per aver ucciso, per legittima difesa, il dottor Morteza Sarbandi, che nel 2007 tentò di violentarla. La famiglia di lei, distrutta, non perde le speranze fino alla fine e combatte a discapito del proprio benessere e della propria sicurezza, ma è intuibile che si tratta dell’ennesima lotta contemporanea contro i mulini a vento. Per avere accoltellato il chirurgo – il quale peraltro l’avrebbe sfidata a farlo, forte della sicurezza narcisistica del non poter subire ritorsioni perché membro dei servizi segreti e dunque schermato da uno strato protettivo – Reyhaneh è vincolata alla cosiddetta ‘vendetta di sangue’, una vera e propria legge che legittima la famiglia di una vittima ad autorizzare l’esecuzione dell’accusato, che si traduce in un senso di giustizia primitivo e assurdo.

Il male del mondo

‘Seven Winters in Tehran’ è un film così brutale da produrre un profondo senso di rabbia, a causa di una vicenda tanto assurda per un paese cosiddetto civilizzato da rasentare l’incredulità, azzerando completamente il valore della vita, con conseguente e inevitabile perdita di fiducia nei confronti del genere umano, che qui emerge dai racconti delle torture e dei soprusi che la giovane Reyhaneh è costretta a subire per essersi difesa. Colpisce la forza con cui la famiglia affronta il caso, perdendo solo raramente la compostezza ma accrescendo la propria sfiducia politica: la madre Shole, infatti, si batte tutt’oggi contro l’oppressione e ha contribuito all’amnistia di diversi condannati. L’umiliazione che una donna è costretta a provare a causa di uno stupro è incomprensibile, soprattutto al genere maschile, ma questo documentario riesce a far percepire l’impotenza asfissiante del risvolto psicologico, gettando lo spettatore in uno sconforto che è necessario affrontare, perché rifuggere a tutti i costi il male del mondo, benché meccanismo di difesa, è sbagliato.

Una flebile speranza illumina quest’immensa oscurità, grazie alla forza di Reyhaneh, che si fa carico dell’ingiustizia collettiva e, abbracciando la certezza della propria morte, trasmette la forza di un’integrità morale perduta. Resta un senso di gelida freddezza, che rende impossibile non provare un senso di vergogna nell'appartenere a una specie che – grazie al libero arbitrio, al senso della morale e dell’etica – non può più sottrarsi dalla responsabilità di costruire una società sana e pacifica, dove tragedie di quest’entità possano sì esistere, ma solo nei libri di storia.

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