La parola ai preti dopo che nel fine settimana è stato letto il messaggio ai fedeli di mons. Alain de Raemy in seguito al Rapporto sugli abusi sessuali
Quali effetti ha avuto lo scritto consegnato ai parroci da monsignor Alain de Raemy, amministratore apostolico della Diocesi di Lugano, e letto nel fine settimana ai fedeli, dopo le conclusioni del Rapporto sugli abusi sessuali nella Chiesa svizzera? Quale la posizione dei preti ticinesi e soprattutto quale la reazione di quanti frequentano le Messe? Domande alle quali abbiamo cercato di dare una risposta, scandagliando i distretti e i loro sacerdoti.
Cominciamo dalla capitale e dalle sue valli, dove la reazione è stata piuttosto di chiusura, tanto da dimostrare che il tema resta scottante. Siamo riusciti a raggiungere l'arciprete di Bellinzona, ma dopo un giro di una decina di telefonate andate a vuoto fra svariati preti attivi in altre parrocchie del Bellinzonese, Riviera, Valle di Blenio e Leventina. Poca la voglia di parlare. Tutti si sono rimessi alle parole della lettera di monsignor De Raemy, preferendo non addentrarsi in una riflessione personale, in quanto – ci hanno risposto in tanti – non è stato peraltro ritenuto necessario, quale complemento, nemmeno sabato e domenica davanti ai fedeli.
Don Maurizio Silini
«Il vescovo Alain ha invitato alla condivisione di sentimenti, riflessioni, eventualmente di vissuti per aiutarci a vicenda a cambiare le cose. Ha anche parlato di “tanta sofferenza” delle vittime, di tragica violenza dei perpetratori degli abusi, di indifferenza inaccettabile da parte di chi, anziché intervenire e sanzionare, ha coperto i comportamenti, ossia principalmente l’autorità della Chiesa». L’arciprete di Bellinzona, don Maurizio Silini, spiega di aver colto in questo procedere «il suo desiderio di non tacitare e non reprimere niente dei sentimenti che tanti di noi provano, di dare però loro la dimensione evangelica che in tutta questa storia è completamente mancata, perché è solo al confronto vitale con la parola di Cristo che le cose diventano esplicite». Secondo don Maurizio «forse la bufera abbattutasi, non improvvisamente, sulla Chiesa in Svizzera era necessaria per un ricominciare dal punto più basso, con l’umiltà necessaria a testimoniare con autenticità il Vangelo». Don Silini spiega anche di non aver avuto reazioni dirette dai fedeli alla lettura del messaggio del vescovo: «È chiaro che l’argomento è stato recepito con sgomento dalla comunità religiosa. Proprio mentre mi trovavo fra persone salutandoci e discorrendo del più e del meno, qualcuno mi ha avvicinato per narrarmi di un abuso capitato nella sua cerchia familiare a una persona che ormai dopo anni vive ancora in trattamento psicologico, pur avendo ritrovato una certa serenità. Era per dirmi quanto profonda è la traccia lasciata da questo genere di devastazioni, in filigrana quanto male ne riceve la Chiesa intera».
A Locarno interpelliamo l'arciprete don Carmelo Andreatta.
Don Carmelo Andreatta
Il Vescovo nella sua lettera ha invitato a “riscoprire radicalmente il Vangelo di Cristo” e ha parlato di “impegno verso la verità”.
Il desiderio del nostro amministratore apostolico in questo momento è stare vicino alla gente, perché è importante dare un segno di presenza, di comunione, di profonda condivisione del dolore che suscita questa vicenda. Il fatto di aver scritto una lettera mi sembra sia un segno bello e positivo, anche per dire a tutti che siamo coscienti che il male è stato compiuto in seno alla comunità cristiana. È un male di fronte al quale non dobbiamo voltare via la faccia, ma che dobbiamo guardare, per renderci conto che molti hanno sofferto e continuano a soffrire. La situazione che si è creata va quindi presa a cuore. Il fatto di invitarci a un momento di preghiera, a un dialogo, esprime bene la sollecitudine del Vescovo per tutta la sua gente.
A livello personale, come esponente di una Chiesa sana, ritrovarsi confrontati con vicissitudini tremende e ripetute negli anni, che effetto le fa?
È molto doloroso, questo devo dirlo. Non è facile lavorare avendo nel cuore questa situazione di profonda sofferenza. Mi riferisco a entrambe le parti: naturalmente alle vittime, che hanno subito l’indicibile, ma anche a chi ha compiuto gesti così orribili. Questo è per me anche un richiamo a non perdere il punto di riferimento essenziale, che è il Vangelo: rappresenta la possibilità che ci è data oggi di essere ancora più forti nella fede e quindi ancora più autentici come uomini e come cristiani.
Appare difficile trovare una spiegazione a determinate azioni, anche dal punto di vista della consapevolezza di compiere atti che sono in profondissimo contrasto con la misericordia e l’accompagnamento nella fede. Lei che risposte si dà?
Sono i misteri del vivere umano. Bisognerebbe chiedere a ognuno degli autori di queste azioni terribili cosa l’abbia spinto a commetterle, cosa l’abbia portato a questi obbrobri. Di fronte a queste domande io sto male e basta. Come da un papà mi aspetto che faccia il papà e da una mamma che faccia la mamma, io da un prete mi aspetto che faccia il prete, nel senso di compiere il suo ministero, il suo mandato nel miglior modo possibile. Purtroppo in ogni campo del vivere sociale ci troviamo confrontati con queste situazioni assolutamente incomprensibili.
Dal suo punto di vista, possiamo in qualche modo mettere in relazione gli abusi alla tematica del celibato, all’impossibilità di esprimere liberamente la propria sessualità?
Non credo. Se uno vive il suo celibato con consapevolezza e libertà, lo può benissimo fare, perché alla base c’è sempre una scelta, una chiamata, che non è una limitazione, ma una cosa bellissima. È naturale che se dentro vi sono delle storture, ad esempio di tipo affettivo, ciò va affrontato in un ambito previo, per capire se la persona è adatta a svolgere il suo ministero, se è libera di vivere il suo celibato, che è un valore che presuppone consapevolezza e dona grande gioia.
In questo senso, la Chiesa mette oggettivamente a disposizione di chi riceve la chiamata gli strumenti adeguati per guardarsi dentro, conoscersi, e affrontare così le domande e i dubbi che possono emergere?
So che in seminario ci si è adoperati per dare al candidato gli strumenti necessari per fare delle verifiche continue. Già ai miei tempi c’era la possibilità di colloquiare, di chiarire laddove necessario.
Il parroco di Chiasso don Gianfranco Feliciani non usa giri di parole. Quello che si è abbattuto negli ultimi giorni sulla Chiesa svizzera è un vero e proprio “ciclone”. E l’arciprete si dice “angosciato” per questi accadimenti. Condivisa così la lettera ai fedeli vergata dal vescovo Alain de Raemy alla Messa di domenica, ha dato voce ad alcune riflessioni dovute. Perché, come ha rimarcato Marietta Meier, una delle autrici del ‘Progetto pilota sulla storia dell'abuso sessuale nell’ambito della Chiesa cattolica romana in Svizzera a partire dalla metà del XX secolo’ con Monika Damman, quanto è stato scoperto non è che la punta di un iceberg. "Concordo in pieno – ha scandito don Feliciani nella sua omelia –. Certo, la Chiesa ha un assoluto bisogno di fare chiarezza”.
Per il parroco chiassese occorre, però, anche andare oltre. Cosa rappresenta, si chiede, la massa dell’iceberg che sta sommersa? “Questa immagine – annota – ci dice un fatto che non possiamo negare, perché è sotto gli occhi di tutti: la massa della società è malata, è malata di egoismo, di arroganza, di disprezzo dell’altro, di attaccamento al danaro, di violenza e di sesso. Ne è una spia evidente il linguaggio. C’è una scurrilità, una volgarità e una dissacrazione che offende e lascia allibiti. E tutto questo non solo nelle conversazioni private, ma anche nei media. Quale linguaggio sentiamo nei talk-show, nei dibattiti e nei film che passa la televisione? Le parole sono pietre”. Quelle che consegna lo studio e quelle scagliate dalle vittime e che interrogano la coscienza umana, come ci ricorda lo scrittore antifascista Carlo Levi proprio nel suo libro ‘Le parole sono pietre’ del 1955.
Don Gianfranco Feliciani
Questo problema, infatti, richiama ancora don Feliciani, “non può essere risolto solo moralisticamente”. Così come “non basta chiedere scusa, è troppo poco. È necessario agire”. Innanzitutto, esorta, “è necessario ovviamente denunciare chi compie il male per impedirgli di nuocere ancora”. Poi, bisogna muoversi “con decisione per risanare la società dall’aria inquinata del male che tutto abbruttisce”. E qui al centro dell’attenzione ci sono i ragazzi, i quali, rende vigili, “saranno sempre a rischio se non si interviene in questa opera di risanamento”. Un’opera, ribadisce l’arciprete, che chiama in causa tutti. Ovvero “la politica, la scuola, la famiglia, la chiesa, il mondo della cultura e dello sport, tutti”.
Di recente il parroco è venuto a conoscenza da alcuni medici del cantone dei problemi psichici di cui soffrono taluni adolescenti. “Ragazzini di undici e dodici anni con gravi turbe psichiche perché dipendenti dalla pornografia online che vedono sui telefonini. Questo fenomeno è molto diffuso. Ma come è possibile che un ragazzino possa facilmente entrare in certi siti? Chi si sta chinando oggi su questo problema gravissimo? Chi deve farlo? C’è una latitanza da parte di tutti che è insostenibile”. A questo punto, conclude don Feliciani, non dobbiamo perderci d’animo, ma “vinciamo il male con il bene”.
La risposta deve essere l’umanità. Questa, per don Marco Dania, deve essere la reazione ai risultati emersi dallo studio pilota dell’Università di Zurigo sugli abusi sessuali nella Chiesa cattolica. Una risposta che deve essere anche ferma: «Se ci sono persone che si sono macchiate di gravi colpe è giusto che paghino di fronte alla giustizia. Ed è giusto fare chiarezza all’interno della Chiesa» valuta il parroco di Besso. «Ma è anche importante manifestare un senso di solidarietà e prossimità verso chi ha sofferto – continua –, attraverso più umanità. Credo che tutti oggi siamo chiamati a rendere sempre più umane le nostre relazioni. In fondo uno dei mali maggiori del nostro tempo è la solitudine. E quindi essere capaci di autentico dialogo, di ascolto, di apertura, di prossimità. È un bisogno primario».
Don Marco Dania
I risultati dello studio hanno portato, ci spiega il sacerdote, «a una sensazione generale tra la gente e tra noi presbiteri di sconcerto, di tristezza, di rammarico, per questa vicenda che in parte era forse già conosciuta, ma che adesso emerge in tutta la sua drammaticità. E soprattutto c’è una sensazione di dolore per la sofferenza di queste vittime». «Da questa sensazione nasce anche un desiderio di ascoltarsi vicendevolmente. È importante offrire per queste vittime un ambiente protetto, con una presa a carico da parte di specialisti competenti, affidabili, che possano mettersi al loro ascolto, accompagnare queste persone che sono state ferite e garantire il loro diritto a una giustizia e a una vicinanza umana che possa aiutarli a sanare le loro ferite».
E a proposito di vicinanza, quella del parroco è fondamentale per la comunità e si esprime in primis durante le messe. Come ha affrontato questo spinoso argomento don Dania? «Già nel saluto ho fatto riferimento alla Giornata federale del digiuno e all’aspetto fondamentale di quest’anno, che è la penitenza. Una penitenza che si tramuta in richiesta di perdono per questa grave lacerazione procurata da uomini di Chiesa. Durante l’omelia ho poi ribadito la necessità di invocare il perdono e la necessità di intraprendere un cammino di conversione, tutti insieme. Con la consapevolezza che la Chiesa non è solo l’istituzione ma il popolo di Dio». Concretamente, il padre osserva poi che «è positivo che sia stata la Chiesa a chiedere che l’Università di Zurigo realizzasse questo studio, in una logica di totale trasparenza. Questo è importante ribadirlo. E lo studio, ricordiamo, continuerà per i prossimi tre anni. Evidentemente, in questi anni sarà necessario riformare qualcosa all’interno della Chiesa».
Ma che cosa? «Ad esempio nell’ambito della formazione nei seminari, con una scelta più oculata delle persone che desiderano intraprendere questo percorso, ricorrendo anche a degli specialisti. E allo stesso tempo potenziare i contenuti della formazione, per sensibilizzare ulteriormente su queste tematiche. Sono cose che vengono già fatte, ma si può fare di più». Riflessioni in tal senso, ci spiega il parroco, verranno presto fatte anche a Roma. «Si è conclusa la fase continentale del Sinodo, a ottobre inizierà quella universale. In quella sede si potranno prendere in esame queste problematiche, per cercare di rendere sempre più responsabili tutti i battezzati a camminare insieme in questo processo di umanizzazione della Chiesa e della società. Quando Gesù dice ‘voi siete la luce del mondo, il sale della terra’ si tratta proprio di crescere in umanità. Il punto di riferimento è sempre l’umanità di Gesù Cristo».
Altri parroci da noi contattati hanno preferito non rilasciare dichiarazioni, mentre c’è chi lo ha fatto ma – forse vista anche la delicatezza dell’argomento – in maniera anonima. «Tra i fedeli regolari, che conoscono la vita della Chiesa dal di dentro e sono coscienti di esserne parte, non ho riscontrato perplessità o preoccupazioni, perché il fenomeno purtroppo è conosciuto – ci spiega un sacerdote –. Anche loro condividono il dolore davanti al male quando viene alla luce nelle sue dimensioni e bruttezza. Ma apprezzano l’intenzione costruttiva dei vescovi di voler voltare pagina rispetto a una prassi troppo timorosa, che ha portato a ingiustizie, trascurando le vittime e non punendo adeguatamente i colpevoli».
Non tutti i fedeli sono parsi così comprensivi: «Un gruppo di giovani attivi a livello di associazioni vicine alla Chiesa, mi hanno testimoniato una iniziale perdita di fiducia verso la Chiesa come istituzione e verso i suoi ministri, appena ricevuta la notizia dei risultati dell’inchiesta. Erano sconcertati dalla contraddizione di chi predica un messaggio e poi lo tradisce così gravemente. Incontrandomi durante un’attività erano contenti di potermi interrogare, per avere chiarimenti. Nel dialogo, alcuni di loro, di età più matura e già coinvolti in studi superiori o nel lavoro, da sé stessi hanno saputo riconoscere che il triste fenomeno non riguarda tutti i preti, indistintamente. Che è importante ricordare le proprie esperienze positive con alcuni di loro, per ritrovare la fiducia. Che quello che ora si vuole fare a livello di Chiesa in Svizzera, è un lavoro prezioso, necessario, anche se molto doloroso. Ma è un lavoro che porterà frutti preziosi per il futuro».
Durante l’omelia, il parroco è partito dalla constatazione che «siamo tutti consapevoli che il fenomeno degli abusi di minori è una piaga sociale. Essa ferisce anche la Chiesa cattolica da tempo. I risultati delle inchieste svolte in Nazioni a noi più o meno vicine, lasciavano pensare che la Svizzera non doveva essere un’isola felice preservata da questi dolorosi fatti. Ora i responsabili delle nostre diocesi e ordini hanno preso l’iniziativa di fare chiarezza per poter rendere giustizia nella misura ancora possibile, riparare al grandissimo dolore delle vittime e applicare, se necessario con ancor maggior rigore, le misure repressive e preventive già intraprese negli ultimi venti anni, sotto l’impulso dei papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Come membri della Chiesa, preti e fedeli ci sentiamo coinvolti e spinti a domandare perdono per tanto dolore imposto a tante persone. E come credenti invochiamo la guarigione dei cuori feriti e la conversione dei responsabili per opera dello Spirito santo».