L'analisi

Un governo per votare

13 dicembre 2016
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L’incarico affidato da Sergio Mattarella a Paolo Gentiloni di formare un nuovo esecutivo rasenta l’ovvietà. Dimessi Matteo Renzi e con lui il suo esecutivo, e non essendoci stato un cambio di maggioranza in parlamento, l’incarico non poteva andare che a un politico espresso dallo stesso schieramento. Un governo, insomma, serve, non fosse altro che per giungere alle prossime elezioni quale che sia il giudizio politico che gli si assegna (quella Maria Elena Boschi era proprio necessaria?). È di questa necessità che si fa schermo un Partito democratico sfasciato. La stessa necessità che, specularmente, fingono di ignorare i più striduli esponenti dell’opposizione, da Salvini ai 5Stelle (e di questi ultimi c’è da temere che non fingano, in effetti). Un “non sapere” che anticipa con chiarezza i temi della prossima campagna elettorale, sopra a tutti la “illegittimità” di chi è al governo. Nella prevedibile contesa fra propagande opposte, provare a trattare con argomenti non strumentali le affermazioni di Salvini e grillini sarà tempo perso ed in sé tentativo futile, poiché si renderebbe funzionale al loro stesso manicheismo falsario. Cosicché, se qualcuno pensava che dopo il referendum il confronto sarebbe tornato a un registro appena civile, si dovrà ricredere. Non che il presidente della Repubblica ne sia ignaro. Da uomo delle istituzioni (e da vecchio democristiano anomalo) non ama tirarla per le lunghe, vuoi per il concetto elevato che ha delle funzioni pubbliche, chiunque le incarni; vuoi perché consapevole (vogliamo sperare) che la lacerazione sociale nel Paese e quella, conseguente, tra cittadini e ceto politico non è più una sciagurata contingenza ma uno scenario che si va incarnando stabilmente nel corpo del Paese. Che vi sia chi sappia porvi rimedio, purtroppo, è dubbio; mentre è evidentissimo chi ne trae il maggior capitale di consensi. Dunque, che Gentiloni (figlioccio della sinistra extraparlamentare via via “normalizzatosi”) abbia davanti a sé mesi difficili, rientra nella dinamica scontata di un confronto politico surriscaldato, e non è questo il problema principale. Il dramma è piuttosto la mancanza di una proposta politica (qualsiasi proposta) all’altezza dei processi attivi a livello globale, che non sia di acquiescenza al dettato della finanza mondiale. Che siano stati gli eredi delle socialdemocrazie europee a incaricarsi di gestire quel disegno altrui, spiega in buona parte il discredito caduto sulle sinistre di governo, e ha aperto la strada all’avvento della peggior destra, a cui si è rivolta quella parte di società che si è sentita tradita e abbandonata. La forma che in Italia ha preso questa tendenza è ben visibile, e si è radicalizzata al punto che difficilmente un pur probo Gentiloni potrà invertirne il corso. Avverrà semmai il contrario, questione di tempo. Tempo che, comprensibilmente, fascioleghisti e grillini vogliono sia il più breve possibile, per vedere tradotto in voti il consenso raccolto attorno al no referendario. Di qui alle elezioni, dunque, non varrà altro argomento: ogni provvedimento di tutela del meccanismo democratico (legge elettorale, tempi, rispetto del dettato costituzionale) verrà denunciato come attentato alla “democrazia del popolo”. E quando passeranno all’incasso, i difensori di quel “popolo” si troveranno ricchi.

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