L'analisi

Perché avanza lo Stato islamico 

26 maggio 2015
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Lo Bzebiz è uno dei ponti sull’Eufrate, lungo la strada che porta alla vicinissima Baghdad. E l’istantanea che ci ha consegnato negli ultimi giorni è fortemente simbolica della tragica complessità della guerra che si snoda lungo i grandi fiumi mesopotamici. Quella fotografia mostra migliaia di profughi in fuga da Ramadi, la città conquistata dalle milizie del Califfato, a un centinaio di chilometri dalla capitale, profughi bloccati dall’esercito iracheno deciso a impedirne l’accesso nella capitale. Si tratta di profughi sunniti. Dunque assai poco graditi al governo del premier sciita Haider Al Abadi: il quale teme che i fuggiaschi siano infiltrati da elementi jihadisti incaricati di innescare un micidiale scontro inter-religioso, in una Baghdad dove la convivenza fra sciiti e sunniti è già difficilissima e spesso ritmata da sanguinosi attentati. Tutto molto complicato, certo. Ma, a saperla interpretare, la vicenda dello Bzebiz conferma il fallimento di quello che doveva essere uno dei capisaldi della strategia americana per la pacificazione del Paese. È anche in questo disfacimento del mosaico iracheno che può del resto avanzare il vessillo nero-cerchiato dello Stato islamico. Che simultaneamente progredisce in Siria, fino a Palmira, l'antica città romana, con i suoi impareggiabili siti archeologici, e con la sua posizione di grande importanza strategica sulla strada di Damasco: il suo controllo consolida l'obiettivo fondamentale della continuità territoriale dell'Isis tra Siria e Irak. Anche qui, tutto molto complicato. Ma, almeno in questa fase, é evidente un'altra impasse, se non proprio un altro autentico rovescio dei nemici del fanatismo sanguinario jihaddista: quello di una coalizione a guida statunitense che sulla carta, ma solo sulla carte, avrebbe i numeri per contenere, almeno, i piani di conquista del califfo Al Baghdadi, o di chi lo ha sostituito alla guida dello Stato islamico. Sono numerosi i motivi per cui non funziona, o funziona male, o finora solo episodicamente, l'alleanza pro-occidentale. In Siria anche a causa dell'impossibilità, per Stati Uniti ed Europa, di promuovere una cooperazione militare con l' "impresentabile" Assad, primo responsabile del tragico disfacimento siriano. E in Irak a causa dell'inconsistenza dell'esercito nazionale, troppo impreparato, troppo demotivato, troppo esposto a diserzioni in massa, e troppo "sciita" (soprattutto ai vertici) per poter rappresentare la difesa di tutte le comunità. Più in generale, poi, la debolezza della coalizione é evidenziata da altri due fattori. Primo: il rifiuto statunitense di intervenire con truppe di terra (su questo i sondaggi stanno dalla parte di Obama, la maggioranza degli americani é nettamente ostile a riportare "gli scarponi sulla sabbia", anche se i raid aerei sono scarsamente efficaci). Secondo: la reticenza , o l'aperta avversità di europei e americani, ad accettare l'alleanza militare con Teheran, paese fuori dalla coalizione, e tuttavia l'unico ad impiegare sul terreno uomini (pasdaran iraniani e hezbollah libanesi) nella guerra all'Isis, con perdite non indifferenti. Ancora una volta, tutto assai complesso. Un caos che induce a una sorta di generale e in parte comprensibile "disattenzione per stanchezza" dell'opinione pubblica internazionale: che mette spesso in secondo piano la sostanza dell'immane tragedia umana che continua a consumarsi da Mosul ad Aleppo, dalle periferie di Baghdad a quelle di Damasco. E' certamente giusto che si sia insistito sul timore che la furia demente degli uomini in nero possa sbriciolare quel "patrimonio dell'umanità" che sono le antiche colonne di Palmira. Ma quante righe avete invece letto sul dramma delle migliaia di profughi bloccati sul ponte Bzebiz?

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