L'analisi

Obama e la ferita razziale 

11 luglio 2016
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Barack Obama, ‘presidente post-razziale’, come egli stesso si è sempre rappresentato quasi ad esorcizzare la grande ferita che scuote il corpo della società statunitense, si appresta dunque a lasciare la Casa Bianca registrando quella che intimamente, oltre che politicamente, sarà di certo la sua delusione più grande: proprio il riesplodere della questione razziale, che la sua elezione il 4 novembre 2008 si sperava potesse, se non far superare, quantomeno allentare. Speranza che oggi si spezza drammaticamente: una polizia che continua impunemente a uccidere neri disarmati; una strage di agenti senza precedenti nelle strade di Dallas, città che evoca la memoria dell’assassinio di Kennedy; e il crescere della protesta del movimento ‘Black Lives Matter’ (le vite dei neri contano), dal nome della contestazione nata tre anni fa in Florida. È possibile che in prospettiva storica la presidenza Obama segnerà un precedente a conferma che un leader di colore, arrivato oltretutto ai vertici del potere statunitense in un contesto traumatico per il Paese (l’esplodere della peggiore crisi economica dopo la Grande Depressione, e una superpotenza militarmente impantanata nelle guerre sbagliate del Medio Oriente) può guidare la nazione registrando un bilancio sicuramente più positivo di numerosi suoi predecessori. Senza sottovalutare la sua capacità di creare in due appuntamenti elettorali quella “coalizione arcobaleno” che sarà sempre più indispensabile in un contesto multietnico in cui i bianchi stanno diventando minoranza rispetto alle altre componenti della società statunitense. Altrimenti l’America conoscerà lacerazioni interne sempre più profonde. Ma oggi prevale l’immagine, e la realtà, di quella che è l’autentica tragedia di un razzismo che non osa chiamarsi col suo nome ma che è ancorato, e che si riflette in cifre più che significative in quasi tutte le realtà del vivere americano. Esempi: la disoccupazione degli afroamericani è il doppio rispetto alla media nazionale, il reddito medio delle famiglie nere registra 20mila dollari in meno all'anno, la speranza di vita è di tre anni inferiore, la proprietà dell’abitazione è a meno 25%, mentre è spropositato – in un contesto dove oltretutto è fondamentale avere i soldi per garantirsi una buona difesa – il numero dei detenuti di colore (gli Stati Uniti rappresentano il 5 per cento della popolazione mondiale, ma contano addirittura un quarto di tutti i detenuti al mondo). È su questa tela di fondo che la situazione si è ulteriormente avvelenata, come se proprio la prima missione di un nero alla guida della nazione dovesse rilanciare i peggiori istinti. Non è del resto un caso se una fetta non piccola del pubblico americano (oltre il venti per cento) ha continuato a pensare che Obama non sia affatto nato negli Stati Uniti – dunque non presidenziabile –, e che sia di religione musulmana. Insomma, una sorta di bugiardo usurpatore. E, immancabilmente, ha cercato di approfittarne Donald Trump, promettendo cinque milioni di dollari in beneficenza se Obama avesse esibito in pubblico il suo atto di nascita. Gli Stati Uniti non sono il Sudafrica, e Obama non poteva certo essere il Mandela americano. Intanto, però, la ferita pullula. E non a caso il ‘New York Times’ ritiene che il ‘Black Lives Matter’, nuovo slogan dell’America nera, ‘rappresenti il primo movimento di difesa dei diritti civili del Ventunesimo secolo’.

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