Commento

Non è una guerra tra ‘noi’ e ‘loro’

8 aprile 2017
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Ci vogliono forza morale e statura per non concedere ai terroristi ciò che reclamano: una dichiarazione di guerra. Il fine di una pur stolta strategia fatta di attacchi puntiformi condotti da individui più o meno consapevoli, con un’ascia, un camion, un coltello, facendo di sé una bomba, è ben riconoscibile: costringere le società europee a scindersi e a combattersi tra un “noi” e un “loro”; puntare a colpire quelle tradizionalmente più tolleranti per dimostrare l’incompatibilità di culture e fedi. Dunque attacchi che non appaiano soltanto vendicativi, ma assertivi, come predica l’Isis nelle pagine web del suo considerevole apparato di propaganda: la sua è una campagna di conquista, non una rappresaglia. E va ammesso che il suo successo, seppur inverosimile nel disegno complessivo, risiede già nelle adesioni che raccoglie, in termini di aspiranti al “martirio” e di opacità degli ambienti da cui provengono.
Quest’ultimo elemento è quello più controverso e tuttavia potenzialmente risolutivo. È noto cioè che la gran parte dei terroristi che in un modo o nell’altro si “immolano” hanno da tempo rotto i ponti con gli ambienti devozionali nei quali sono cresciuti (spesso passando per forme di devianza sociale e talvolta anche il carcere), trovando poi ascolto e aiuto nella ricostruzione di una propria identità nelle parole e nella vicinanza con gli specialisti dell’indottrinamento.
Ma questi “figli che si perdono” restano pur sempre figli, mariti, talora figlie, di una comunità che tende a proteggerli, come farebbe qualsiasi comunità allocata in contesti stranieri o addirittura ostili, e come le comunità musulmane tendono a fare in misura maggiore, in forza di una loro cultura peculiare.
Non si tratta qui di colpevolizzare o di assolvere. Piuttosto, di capire, da un lato, e di sollecitare, dall’altro. In breve: il modo più affidabile per tentare di sconfiggere il terrorismo (più della sola repressione armata) è prosciugare l’acqua in cui nuota. Riandando, se non risulta offensivo, al fenomeno terrorista nell’Italia degli anni 70/80, si vede con chiarezza che a sconfiggerlo fu il deserto fattogli attorno da quella classe operaia di cui si voleva avanguardia armata, e che aveva infine superato il “compagni che sbagliano”. E tocca alle comunità musulmane, nelle loro variegate aspirazioni e provenienze, percorrere tale strada.
Per esigerlo occorre però che le nostre stesse società, la politica, rifiutino lo schema binario noi-loro di cui si è detto sopra. Non solo perché è infantile e ignorante pensare i “musulmani” come una entità esclusiva e indistinta, proprio come lo è ritenere le nostre “una società”, lacerate come sono da contrasti economici, politici, culturali. Ma anche perché tale forma di pensiero (in auge in molta parte della politica europea) è speculare alla pretesa degli ideologi del terrore, e fornisce loro un vantaggio tattico formidabile.
Quella al terrorismo non è una guerra che richiede capacità militari, ma intelligenza, cultura, umanità. Sì, anche quando un assassino al volante di un camion (che dio lo maledica) si intesta un mandato divino. Perché è del suo gesto che dovrà rispondere, non del suo credo.

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