L'analisi

Nel nome di Dio

19 novembre 2015
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L’infinito stillicidio di stragi perpetrate nel nome di Allah, dall’Asia orientale al Pakistan, dal Medio oriente al Maghreb fino alle capitali occidentali, riapre con regolarità la diatriba sul rapporto tra violenza e religione. L’amalgama musulmani uguale terroristi è regolarmente estratto dal cilindro di chi vuole stigmatizzare l’altro, il diverso. Un’operazione di semplificazione eticamente inaccettabile, sostanzialmente razzista, gravida di insidie, che mira ad alimentare ulteriormente i conflitti. E a distogliere l’attenzione dalle enormi responsabilità “nostre” nei confronti di “loro”. La politica estera francese con i salamelecchi ripetuti ai sauditi, dopo quella americana, è la prova lampante di un’incoerenza che sfocia nell’ipocrisia. Ma neppure la posizione innocentista, infarcita di ingenuità o di malafede, che mira a sottrarre l’Islam da qualsiasi responsabilità ideologica e dottrinale, risponde agli interrogativi multipli che suscita la tempesta di terrore islamista. Daesh in realtà è un mostro partorito dal mondo musulmano, così come lo sono stati altri movimenti di tagliagole: nell’ammetterlo, pur senza sottacere le responsabilità occidentali, il grande islamologo riformista Abdennour Bidar sgrana i ritardi, gli scacchi, la mancanza di democrazia, le involuzioni dei diritti umani e della condizione delle donne che contraddistinguono praticamente tutti i paesi musulmani. Il cancro del fanatismo, nell’Islam così come in altre religioni, non è estraneo al testo, attecchisce facilmente quando ne viene privilegiata una lettura letterale. In effetti, se si crede che il Corano o la Torah (il Pentateuco, i primi 5 libri della Bibbia ebraica) siano stati scritti da Dio, allora l’ermeneutica (l’operazione di contestualizzazione storica e di interpretazione) non ha ragion d’essere. Perché la parola di Dio è astorica, atemporale. Ha così buon gioco il sedicente Califfato a rivendicare la mattanza di Parigi citando un versetto del Corano (59.2) in cui Allah getta terrore tra i miscredenti, di cui vien preconizzata in altre sure l’uccisione e la crocifissione. L’esecuzione capitale degli apostati è legge in diversi paesi musulmani ed è prevista dalla più autorevole raccolta di detti del profeta (il Sahih di Al Bukhari). Elementi estremi che troviamo anche nell’Antico Testamento, riferimento dell’ebraismo e del cristianesimo: il Dio vendicativo del Levitico o dei Numeri manda a morte blasfemi, ladri e direttamente al rogo le prostitute. Non è certamente un caso che i fondamentalismi delle religioni rivelate presentino inquietanti analogie. Per l’Islam, tuttavia, la questione si pone con maggior forza: la commistione potere politico-religione sbarra in effetti la strada alla democrazia e allo Stato di diritto, soffoca le libertà. Parigi è stata colpita in quanto ‘ville lumière’ (luogo della perversione) ma anche ‘ville des lumières’ (la ragione nemica dell’integralismo). Se l’Islam non è ‘il’ problema, è certamente parte importante del problema. Ecco perché la battaglia per i valori dell’umanesimo deve passare attraverso un controllo rigoroso (espulsione compresa) dell’ambito religioso e di chi predica l’intolleranza e l’odio. Come Rachid Abou Houdeyfa, l’imam di Brest, che dopo aver predicato la convivenza con i cristiani all’indomani della strage di gennaio, è stato pizzicato in una registrazione clandestina mentre spiega ai bimbi della scuola coranica della banlieue, che la musica è il diavolo e che chi l’ascolta, secondo il profeta, sarà trasformato in un maiale.

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