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Morte del padrino, il pm Ayala: l'attacco allo Stato fu un danno per Cosa nostra

18 novembre 2017
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Totò Riina impose a Cosa Nostra un mutamento di strategia epocale, forzando un attacco allo Stato, che procurò un danno enorme alla mafia stessa. Giuseppe Ayala, pubblico ministero nel maxiprocesso del 1986, ricorda bene quell’epoca e ne dà questa lettura. Prima di Riina, spiega, «Cosa Nostra cercava l’invisibilità, l’accomodamento. Quando, nel 1971, fu ucciso il procuratore della repubblica Scaglione, il delitto parve talmente inspiegabile, che per anni furono gettate ombre sulla sua figura. Solo dopo molti anni, un processo stabilì che era morto per avere emesso un provvedimento nei confronti di Luciano Liggio». Il sangue, se si può dire così, scorreva piuttosto nei regolamenti di conti o nelle dispute tra clan. Finché «l’avvento di Riina e Provenzano, soprattutto del primo, introdusse l’omicidio come strumento ordinario di affermazione». In due direzioni: una nei confronti dello Stato «un elenco lunghissimo: nel 1979 Boris Giuliano, capo della mobile di Palermo; nel 1980 il presidente della regione Sicilia Piersanti Mattarella, e il procuratore della repubblica di Palermo Gaetano Costa; nel 1982 il generale Dalla Chiesa; nell’83 Rocco Chinnici» La seconda rivolta alla stessa Cosa Nostra: «L’uccisione, il 23 aprile 1981 di Stefano Bontade, capo della mafia palermitana, e pochi giorni dopo del suo sodale Totuccio Inzerillo, diede inizio alla cosiddetta “guerra di mafia”. Il disegno egemonico di Riina, come lo definì Giovanni Falcone, si compì al ritmo di 300 omicidi l’anno a Palermo». Una strategia che però espose la mafia alla risposta più decisa dello Stato: «Dissi una volta con ironia amara,– ricorda Ayala – che Riina era il membro occulto del pool antimafia. Se non avesse scatenato la sua guerra, non avremmo avuto i primi pentiti. Buscetta non si sarebbe sognato di collaborare con la giustizia se non gli fossero stati ammazzati due figli, il genero, il fratello e il nipote. La sua vendetta si consumò parlando con Falcone. Sostenevo l’accusa, allora, e posso dire che senza le deposizioni di Buscetta, il maxiprocesso difficilmente avrebbe avuto l’esito straordinario che ebbe. Riina alla mafia fece un grosso danno». Un Riina, la cui figura di contadino incolto, rozzo, contrasta anche con l’immagine un po’ oleografica di una mafia insediata in certe baronie del latifondo, che invita “vossignorie” a bere un caffè... «Potremmo infatti metter a confronto le due figure: Bontade e il suo carnefice. Bontade era un personaggio che frequentava la buona borghesia palermitana, aveva una dimora in cui ricevere ospiti riveriti, era quel tipo di mafia che Riina spazzò via, cominciando con il suo omicidio. L’avvento dei “viddani”, come i palermitani definivano spregiativamente i contadini, cambiò tutto». E come definirebbe Ayala la dimensione umana della lotta alla mafia condotta dal pool? «Intanto ricordo l’ammonimento di Falcone: qualunque cosa accada, nessuno finisca nella sindrome del reduce. Ma credo che quel gruppo sia irripetibile, forti com’erano la lealtà, la fiducia totale, l’amicizia, la fratellanza. E Nino Caponnetto a farci da “padre”. Io sostenevo l’accusa sulla base delle loro straordinarie istruttorie, e posso dire di avere sempre portato il risultato a casa». E per quello definitivo, quanto occorrerà attendere? «Ricorro ancora a Falcone. La mafia, disse, è un fenomeno umano, e come tale destinata a finire. Sono d’accordo e spero di esserci quel giorno, anche se, a 72 anni, temo che il tempo a disposizione non sia più tantissimo».

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