In Italia si torna a parlare di Voluntary disclosure. A poco più di sei mesi dalla chiusura della prima versione del programma di emersione dei capitali illecitamente esportati, il governo italiano ha intenzione di riaprire i termini con l’obiettivo di incassare altri due miliardi di euro. Gli anni da ‘coprire’ sono il 2015 e il 2016. L’ultima chance per mettersi a posto con il fisco del proprio Paese, come era stato denominato il primo provvedimento chiusosi alla fine dell’anno scorso, rischia di essere la penultima o la terzultima in ordine di tempo.
Si sa che lo scambio automatico d’informazioni fiscali secondo il futuro standard dell’Ocse è dietro l’angolo. Il parlamento italiano ha già approvato la relativa legge di ratifica del protocollo di modifica della Convenzione contro la doppia imposizione (Cdi) tra Italia e Svizzera, che introduce il cosiddetto scambio d’informazioni ‘rafforzato’. Per quello automatico bisognerà attendere la fine della procedura di ratifica del relativo accordo con l’Unione europea e quindi con i suoi 28 Stati membri. Comunque sia, entro il 1° gennaio 2018 si incomincerà a inviare e ricevere dati dall’estero.
Già prima di quella data, però, e in base al protocollo di modifica della Cdi italo-svizzera firmato il 23 febbraio 2015, le autorità fiscali italiane potranno chiedere informazioni, anche di natura finanziaria, a quelle elvetiche riguardo a singoli contribuenti o gruppi di contribuenti. In particolare, in base all’articolo 27 della Convenzione, l’Italia potrà individuare i soggetti che non hanno aderito alla Voluntary disclosure. Inoltre sarà dato seguito, da parte svizzera, alle cosiddette ‘richieste raggruppate’. In pratica si riuscirà a isolare i soggetti che hanno chiuso le relazioni bancarie dopo il 23 febbraio 2015 o che, pur non avendole chiuse, le hanno svuotate. Su questo tema, per quanto riguarda un’analoga Cdi già in vigore con l’Olanda, dovrà esprimersi ancora il Tribunale federale di Losanna in seguito a una sentenza avversa all’Amministrazione federale delle contribuzioni emessa negli scorsi mesi dal Tribunale amministrativo federale. Ma questa è musica del futuro.
Per tornare all’imminente riapertura del programma di regolarizzazione – ammantato sì da termini inglesi, ma non è nient’altro che un provvedimento di autodenuncia noto da tempo anche nella legislazione fiscale svizzera – non è rivolto prevalentemente ai capitali detenuti in Svizzera. Ormai, tra le varie edizioni degli Scudi fiscali e la Voluntary ultima scorsa, c’è rimasto poco nelle banche svizzere (si spera, almeno) di capitali italiani non regolarizzati. Non è così nelle ‘piazze finanziarie esotiche’, come dimostrato dalla vicenda dei ‘Panama papers’. Stando ai dati diffusi dall’Agenzia delle entrate, dalle giurisdizioni come Isole Vergini britanniche, Antigua e Barbuda e la stessa Panama è – per così dire – emerso poco o nulla: meno di 500 milioni di euro a fronte dei quasi 60 miliardi totali, oltre 41 dei quali dalla sola Svizzera.
È noto che molte entità off-shore battenti bandiera panamense o di altra giurisdizione caraibica risultano beneficiarie economiche di conti bancari e beni patrimoniali che in realtà si trovano altrove. Ora gli azionisti o gli amministratori di fatto di tali società, trust o fondazioni esotiche avranno ancora – a partire dalla prossima estate – qualche mese per regolare i conti con il fisco del proprio Paese. Ma tutto ciò non riguarderà più le banche svizzere, men che meno quelle della piazza finanziaria ticinese. Ne siamo così sicuri?