L'analisi

Le maschere di Netanyahu

20 marzo 2015
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Nelle urne israeliane c’era anche la scheda del neo-califfo Abu Bakr al-Baghdadi. La scheda della paura. La paura di un Paese circondato da un mare di conflitti attraversati anche dalla violenza jihadista. Un Paese, Israele, la cui maggioranza ritiene di poter garantire la propria sicurezza con il massimo di chiusura internazionale e con la negazione dei diritti palestinesi. Ecco perché nelle urne delle elezioni politiche di martedì scorso c’erano indirettamente anche le bandiere nero-cerchiate di al-Baghdadi. Del resto, il trionfatore Benjamin Netanyahu – che strappa il record storico della quarta vittoria elettorale, smentendo sondaggi che infatti avevamo definito prematuramente scontati – nella ultime ore di campagna aveva innescato il suo clamoroso recupero sui timori che nella maggioranza degli israeliani hanno avuto evidentemente la meglio sulle preoccupazioni economiche e sociali: da una parte l’Iran, definito addirittura “più pericoloso dell’Isis” (ecco di nuovo el-Baghdadi…); e dall’altra il rapporto con i palestinesi. Su quest’ultimo punto, “Malek Bibi” (“Re Bibi”) come ormai lo acclamano i suoi fan, ha definitivamente gettato la maschera, semmai ve ne fosse bisogno. Proprio nelle ore del voto, per mobilitare gli indecisi, Nethanyahu ha lanciato un allarme indecente, segnalando dal suo profilo Facebook che gli arabi israeliani per la prima volta si stavano recando in massa alle urne. Un modo per alimentare un supplemento di inquietudine in chi ritiene, come lo stesso premier, che Israele debba essere “lo Stato degli ebrei”, e che un quinto della nazione, già abbondantemente discriminato, rappresenti una minaccia e una inaccettabile contaminazione di quel principio. Dunque, un capo di governo in aperta lotta contro una parte cospicua del suo popolo, visto che gli arabi con passaporto israeliano sono il 20 per cento della popolazione residente dentro i confini del ’67. Indecente, appunto. Ancor più prevedibilmente, la seconda maschera “Bibi” l’ha fatta definitivamente cadere sul tema delle colonie e dei diritti dei palestinesi nei territori occupati della Cisgiordania e in quelli costantemente assediati di Gaza. «Con me non ci sarà mai uno Stato palestinese», ha dichiarato, contraddicendo una parziale, ambigua accettazione da lui stesso avanzata a denti stretti sei anni fa sulla possibile soluzione dei “due Stati”. Intendiamoci, pochi avevano davvero creduto che colui che si considera l’erede di Vladimir Jabotinsky, il teorico intransigente del nazionalismo sionista e anti-arabo, potesse svoltare su posizioni moderate. Ma averlo proclamato così apertamente, pur nella concitata rincorsa elettorale, mette a nudo quell’ambivalenza, quel doppio discorso, che proprio gli israeliani della sua pasta rimproverano di continuo alla parte anche moderata della leadership palestinese. Quale Netanyahu ha detto la verità? Quello del 2009, o quello di oggi? Non c’é più dubbio: quello di oggi (becnhé ieri abbia tentato si sfumare la perentorietà dell’affermazione) Tanto più che per formare il suo nuovo esecutivo, egli si appresta a imbarcare gli stessi alleati dell’estrema destra – ultra-nazionalisti e ultra-ortodossi, più gli indispensabili deputati di un ex ministro dello stesso Likud – con cui ha spinto Israele sulla linea intransigente del rifiuto. O dei “cinque no”: no allo Stato palestinese; no alla sospensione (almeno) dei nuovi insediamenti a Gerusalemme; no alla comunità internazionale che moltiplica i riconoscimenti dello Stato palestinese; no a Barack Obama sull’imminente intesa con Teheran; e no al presidente israeliano Reuven Rivlin, che con tutta evidenza avrebbe preferito un verdetto favorevole a un governo di unità nazionale che stemperasse e ridimensionasse la posizione dei “falchi”. Ha qualche carta in mano, “Bibi”. Non solo la “divina sorpresa” di una vittoria che sembrava molto difficile. Ma soprattutto il sostegno di un Congresso americano dominato dai repubblicani e che lo sostiene nel braccio di ferro con un Obama comunque vicino all’uscita di scena. Deve sperare che gli basti per respingere il prevedibile ricorso dell’Autorità nazionale palestinese alla Corte Internazionale dell’Aja contro i crimini dell’occupazione. Ma anche se questo schiaffo dovesse arrivare, ai “falchi” di Israele probabilmente importerebbe poco. Non temono il parziale isolamento internazionale e le varie campagne di boicottaggio dei prodotti israeliani provenienti dalle colonie. Finché il neo-califfo sponsorizza altre stragi – fino in Tunisia – e nel momento in cui gli Stati Uniti ammettono che il boia Assad è ormai “indispensabile” per l’ondivaga strategia occidentale, di che preoccuparsi? E che importa se nelle sabbie del Medio Oriente sono state sepolte molte illusioni e molti calcoli fallaci?

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