L'editoriale

La mezzaluna e la croce

7 maggio 2015
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Non so se l’Islam è un problema; di sicuro l’Islam ha un problema. Nella seconda religione al mondo per numero di fedeli si sta affermando una minoranza che pretende di rappresentarla nelle forme odiose che conosciamo. Il problema dell’Islam, tra i cui credenti si conta il maggior numero di vittime di quei banditi, è da un lato la crisi sociale dei Paesi in cui è più diffuso (spesso proponendosi la via del jihad ai giovani quale sola alternativa a vite marginali e subalterne); dall’altro di natura dottrinale: l’affermazione di quel wahabismo veicolato dalle smodate ricchezze saudite, principali fonti di finanziamento delle moschee e delle scuole di formazione degli imam – decine di migliaia –, megafoni del radicalismo nel mondo. Entrambi i problemi rinviano a responsabilità politiche e culturali che hanno fatto scrivere al filosofo Abdennour Bidar una pregnante lettera aperta al mondo musulmano: “Il peggio è che ti vedo perdere tempo e onore nel rifiuto di riconoscere che questo mostro è nato da te, dai tuoi sbandamenti, dalle tue contraddizioni, dalla tua lacerazione tra passato e presente, dalla tua troppo lunga incapacità di trovare il tuo posto nella civilizzazione umana”. A un filosofo non si può forse chiedere di sottolineare che gli stessi sauditi detengono le chiavi della prigione ideologica in cui langue l’Islam, mentre sono i garanti regionali degli Stati Uniti. Lo facciamo noi, allora, per completezza, e perché proprio questa contraddizione è affine al modo in cui la nostra parte di mondo interpreta e reagisce alla disumanità che uccide invocando Allah. Per pudore vorremmo ignorare le manipolazioni propagandistiche a cui, su questo tema, si presta certa stampa, d’accordo (o per ingraziarsela) con la politica che sul “pericolo islamico” lucra consensi e voti. Ma sono anch’esse parte del nostro mondo, e non contribuiscono a renderci “migliori” dei tagliagole. Poi ci sono le nostre guerre umanitarie (perlopiù sostenute da chi le combatte per procura, perché mai avrebbe il coraggio), i missili sganciati dai nostri droni che per uccidere un terrorista fanno a brandelli chi era lì e non c’entrava niente. E c’è soprattutto una drammatica, crescente confusione che induce ad associare “occidente” (inteso come modernità) a cristianesimo (inteso come appartenenza a una confessione). Associazione che i jihadisti evocano come ragione della loro pazza guerra santa, e che sempre più “nostri” commentatori e analisti fanno propria, quasi che un “occidente” da tempo secolarizzato (e talora scristianizzato) abbia finito per accostumarsi a tale arretramento culturale sciagurato. Quello che nelle forme più becere si accorge del dramma siriano, per dirne una, solo dopo decine di migliaia di morti, quando tra questi (con particolare ferocia di chi infierisce su di loro) si cominciano a contare anche “cristiani”. Mentre, se c’è un “valore” di cui questo “occidente” potrebbe a buon diritto reclamare la paternità (salvo rinnegarla ad ogni avvistamento di “barcone”) è il primato della persona in sé, più della sua eventuale fede. Derogando da questa eredità (evangelica, comunque) che trovò forma nell’umanesimo, diventerebbe più difficile di quanto già sia elaborare immagini come questa: l’8 aprile scorso, il generale serbo-bosniaco Zdravko Tolimir si è presentato nell’aula del Tribunale internazionale per l’ex Jugoslava all’Aja, imputato del massacro di seimila uomini, nel luglio di vent’anni fa a Srebrenica. Al petto Tolimir ostentava una gran croce. E le sue vittime erano “musulmane”. Ecco, non saprei se il cristianesimo è il problema; ma qualche problema…

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