L'analisi

Il risentimento fa volare Trump

6 maggio 2016
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Visto l’abbondante sarcasmo con cui venne accolto l’annuncio della partecipazione di Donald Trump alle primarie repubblicane, non è certo il caso di ironizzare oggi che il vociante immobiliarista si dà arie e toni più presidenziali dopo aver sbaragliato tutti i suoi rivali, costringendo anche gli ultimi due competitors a gettare la spugna. Non si vede infatti come il frustrato establishment del Grand Old Party possa rilanciare la partita organizzando una “Convenzione aperta” in cui individuare una coalizione di mandati anti-Trump (dal secondo turno molti delegati hanno mano libera) a costo di irritare milioni di elettori spingendoli verso una rancorosa astensione. Insomma, sarà Clinton-Trump. E nonostante i sondaggi oggi nettamente favorevoli all’ex first lady, non è ancora il caso di dare per scontati l’esito dell’8 novembre prossimo, e il nome del quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti. Cinque mesi non sono pochi per escludere l’indebolimento di un’economia che nonostante i risultati indiscutibili (nove milioni di posti di lavoro creati negli ultimi sette anni) registra ancora una crescita debole (i redditi delle famiglie sono fermi da tre lustri) nonché l’impoverimento della classe media. Cinque mesi in cui anche il cangiante e preoccupante quadro internazionale potrebbe registrare altre umiliazioni per la superpotenza, appesantendone ancor più quegli umori rabbiosi, il carburante di Trump. L’umor nero, sottolineava giorni fa su questo giornale il presidente del Council on Foreign Relations, Richard Haass, è lo stato d’animo diffuso in un elettorato che, conservatore o democratico, nutre risentimenti contro bersagli diversi, dal Congresso a Wall Street, dalla Casa Bianca agli immigrati, dalla concorrenza estera ai musulmani alla mano pesante della polizia verso la comunità afro-americana. E si potrebbe continuare. Una miscela che spiega il successo di Trump ma anche quello comunque registrato da Bernie Sanders a sinistra, anch’egli inizialmente preso poco sul serio come “candidato socialista” in un Paese che si voleva accanitamente immune da una simile tentazione. È comunque l’idea, anzi la constatazione del declino americano che ha portato a Donald Trump una quota imprevista di consensi. Soprattutto in quella parte di elettorato “wasp” (bianco e protestante) che erroneamente attribuisce la responsabilità di tale regresso a Barack Obama: che non solo ha la colpa di essere nero, ma – scrive Massimo Teodori, docente di storia americana– è anche ritenuto estraneo al credo di un’America fondata – così promisero i suoi padri – come una “nuova Gerusalemme”, visione messianica, teoria dell’eccezionalismo americano e “il suo diritto-dovere di contagiare il mondo col suo modello civilizzatore”. È una parte d’America, quella “trumpiana”, che non si rassegna alla perdita del primato politico mondiale, alla rivoluzione demografica che negli Stati Uniti ha messo i bianchi in minoranza, alla fine della certezza che quello sarebbe sempre stato il regno delle opportunità per tutti. Nel campo conservatore Trump ha sconfitto e ridimensionato il cosiddetto “partito di Dio”, il fondamentalismo protestante e militante che aveva puntato su Ted Cruz. Ma allo sfidante di Hillary Clinton i votanti che l’hanno acclamato nelle primarie chiedono comunque di riaprire le porte della “Nuova Gerusalemme”. Lui la promette a piene mani. Non gli costa nulla alimentare un’illusione antistorica. E comunque poco rassicurante per il resto del mondo.

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