L'analisi

Il Ramadan più violento

8 luglio 2016
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Al termine di un Ramadan che l’Isis ha voluto trasformare in un bagno di sangue, alcune tendenze si vanno confermando: l’estensione sempre maggiore dell’area in cui arriva a colpire, dagli Usa al Bangladesh; lo spettro più ampio delle modalità con cui opera: con gruppi strutturati, individui isolati, piccole unità; con autobombe, presa di ostaggi, attacchi suicidi, aggressioni all’arma bianca. Una diversificazione che risponde ai mutamenti dello scenario che lo stesso Isis ha eletto a proprio campo di battaglia. Le difficoltà in cui versa nelle aree che aveva posto sotto il proprio controllo hanno ridotto tempi e opportunità di formazione e addestramento di combattenti da inviare all’estero, soprattutto in Europa. Di qui la necessità di una certa flessibilità, anche ideologica, per servirsi di “cani sciolti” dai quali si esige una professione di fedeltà alla casa madre per vedere rivendicata la propria (sia pure estemporanea) missione di morte. Pratica che corrisponde all’esigenza di massimizzare la risonanza mediatica delle azioni. Anche la prassi omicida ha delle costanti che, se non un disegno, indicano una tendenza. La più evidente agli occhi di noi occidentali è il corrispettivo jihadista dello “shock and awe” (colpisci e terrorizza) praticato dalla cricca Rumsfeld nella guerra in Iraq, per assoggettare psicologicamente il nemico. Questo spiega la scelta di obiettivi civili, individuali o di massa, non solo perché più vulnerabili di obiettivi militari, ma perché generano una immediata identificazione con le vittime da parte di noi spettatori globali, favorendo il sentimento di poterlo essere a nostra volta. E si accorda con la crescente crudeltà e pubblicità data all’atto: dall’accurata sceneggiatura degli sgozzamenti di Jihadi John, alla “diretta” dell’assassinio dei due poliziotti in Francia, alle scene da Arancia Meccanica all’interno del ristorante a Dacca. In parte diverso il discorso relativo al “fronte interno”, dove le stragi non fanno distinzione tra musulmani ed ebrei o “crociati”, ma sempre meno anche tra sunniti e sciiti, come dimostrano le carneficine di Istanbul o di Baghdad, e gli attacchi in Arabia Saudita, persino nella città santa della Medina. In questi casi lo scopo è colpire regimi apostati o traditori (tali sono ritenuti quello dei Saud e il neosultanato di Erdogan) e al tempo stesso imporre la propria leadership sul litigioso universo jihadista, sui residui gruppi qaidisti in particolare. Come affrontare un simile scenario è ciò su cui si arrovellano gli esperti. Noi possiamo solo osservare che la pressione militare posta sull’Isis tra Siria e Iraq ha sì ridotto la sua capacità di propulsione bellica verso l’esterno, ma che i toni trionfalistici generati dalle “liberazioni” di Falluja o Palmira sono mera propaganda, che svia dal riconoscimento che molto spesso i “liberatori” sono a loro volta percepiti come invasori dalle popolazioni interessate. Quanto alla dimensione ideologico-religiosa, soprattutto per come agisce nella nostra parte di mondo, valgono le osservazioni, tra gli altri, di studiosi come Olivier Roy o Renzo Guolo, che vedono nel fondamentalismo jihadista la sola ideologia radicalmente e universalmente alternativa al “sistema” di un mondo globalizzato. Nichilista, criminale, vanesia, certo, ma capace di fornire una “identità” e una prospettiva di significato sciaguratamente “credibile” agli occhi di chi per condizione sociale o per infatuazione ideologica, dal sistema si sente escluso o lo vuole rovesciare. Nel Novecento furono le opposte ideologie il motore di questa rivolta radicale. Nel secolo che corre si reclama nel grido allahu akbar. Questa sarà la battaglia più lunga.

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