Commento

Il migrante ignoto

2 marzo 2017
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Senza documenti e senza identità. Unico indizio, la pelle scura. Come tanti cercava il futuro, come parecchi – troppi – ha trovato la fine della sua esistenza. Questa volta su un treno, in maniera orrenda. Chissà da dove è partito e chissà dove voleva andare. E anche, chissà cosa pensava e cosa amava. E soprattutto, chissà perché nessuno l’ha fermato, dissuaso, prima di saltare sul tetto del Tilo per eludere così i controlli alla frontiera. Come quella giovane ragazza, morta in una galleria autostradale del confine italo-francese a Ventimiglia. Come molti altri, affogati nel Mediterraneo. E altri ancora, come il piccolo Aylan, ritrovato esanime sul bagnasciuga di una spiaggia turca e raccolto da una guardia, la cui foto ha fatto il giro del mondo trasformandosi così in un urlo contro la dignità umana perduta. Il “migrante ignoto” morto lunedì sera non ha neanche questo, non resta di lui manco un’immagine, per quanto cruda, che ci faccia riflettere. Solo il rumore sospetto sulla carrozza del convoglio, descritto dai viaggiatori di quel treno (come un animale selvatico in cerca di un rifugio). O forse solo un bagliore. Come la scia di una stella che si disperde nel cielo nero della notte. Poc’altro. Neanche un numero, che tanto ricorda la disumanizzazione dell’uomo e però, in qualche modo, è ancora “qualcosa”, un segno in cui ritrovarsi seppur nell’alienazione. Il nulla, quell’uomo morto sul treno, che transita nel nostro territorio che poi in verità – e lo sappiamo bene – è il “tutto” perché nei più fragili c’è l’immensità della vita e, nel caso specifico, nei migranti di tutto il mondo c’è quella speranza che noi uomini appagati (ma appagati davvero?) tendiamo a perdere con grande facilità.
Ecco, questa ennesima morte figlia della miseria ci interroga ancora una volta sul senso. Sul significato di tanto apparire, presenziare, cercare affonnosamente un’immagine gradita ai più, coi nostri selfie e le nostre fragili apparenze. Noi che vogliamo essere qualcuno, di botto confrontati col “nulla”, se non un corpo esanime che ci assomiglia e ci appartiene, perché uomo in un mondo di uomini. Morire senza identità in una società, la nostra, dove l’esserci qui, ora e ovunque diventa nevrosi collettiva. Quasi affannata esigenza del presente, a prescindere dalla storia (nostra e degli altri che ci circondano). E forse è proprio per questo che abbiamo perso la speranza. Poi magari è già un altro giorno, persi nella disumana illusione di trasformare la nostra vita in una ritualità iconica. A garanzia dell’immortalità.
Qualcuno, alla stazione di Balerna, ha posto un fiore. Che sia davvero una nuova primavera.

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