Commento

Il finale di partita di Barack Obama

31 dicembre 2016
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Un finale di partita che ne apre un’altra il cui esito sarà perlomeno incerto. All’apparenza, in questo scorcio finale della sua presidenza, Barack Obama sta dando un giro di volta a situazioni e questioni che in otto anni non ha saputo o voluto gestire; o dalle quali, ove abbia provato a misurarvisi, è uscito battuto.
Il discorso di John Kerry, mai così esplicito, sull’illegalità e l’iniquità della colonizzazione israeliana dei Territori palestinesi; e le pesanti misure di ritorsione nei confronti di Mosca per l’asserita ingerenza nella campagna presidenziale statunitense sembrano infatti voler recuperare in attivo le voci passive del bilancio del mandato di Obama: la questione israelo-palestinese (e, per estensione, il Medio Oriente) e il confronto strategico con la Russia dell’arrembante Vladimir Putin.
Secondo alcune interpretazioni si tratterebbe di un colpo di coda inefficace e persino inelegante, una sorta di reticente, dispettosa ammissione di impotenza. E dà mostra di considerarla tale Donald Trump, che infatti si è premurato di tranquillizzare Netanyahu e Putin, assicurando che “dal 20 gennaio” tutto andrà a posto. Potrebbe, ma non è detto che sia così.
Intanto perché una simile rappresentazione contraddice il tratto – caratteriale e politico – più “cool” della presidenza Obama, una ponderatezza ai limiti dell’irresolutezza, un sicuro fastidio per i colpi di scena (associato a una certa coda di paglia, se si pensa a come cambiò le sorti della guerra in Siria l’annuncio della “linea rossa” dell’impiego di armi chimiche, voltosi poi in porta spalancata al protagonismo russo che oggi raccoglie i frutti di un’acuta perizia tattica).
E poi perché nelle ultime mosse di Obama si può leggere ben più di un dispetto fatto a due interlocutori mai stati veramente tali se non su un piano di reciproca insofferenza. Il messaggio a Netanyahu è forse quello che più sottolinea una (timida) svolta nelle relazioni tra Stati Uniti e Israele: non l’abbandono (che oltretutto sarebbe una sciagura) del protetto storico, ma la relativizzazione della sua posizione: una tra le altre che si disputano un medesimo diritto alla terra e alla sicurezza.
È invece meno sorprendente, se non nella forma, la sfida a Putin. Anche liberato dai contenuti ideologici, quello tra Stati Uniti e Russia non ha mai perso la natura di conflitto strategico. E se il revanscismo di Putin ha origini dalle frustrazioni cumulate negli anni-Eltsin, la razionalità professorale di Obama è sì un contrappasso rispetto alla criminale ignoranza di G.W. Bush e della sua coorte di ammazzasette, ma più nei modi che nel senso più profondo, quello relativo al primato statunitense nel mondo. E che ha rivelato essere Obama un presidente degli Stati Uniti disposto sì a concedere, ma non a cedere. Almeno in extremis.
Quali poi saranno gli effetti di questa tardiva assertività nelle relazioni Usa-Russia, e di conseguenza sugli assetti mondiali, non siamo in grado di dirlo. Si possono piuttosto immaginare quali saranno sulla presidenza statunitense entrante. Anche in questo caso, la pretesa semplificazione, a colpi di tweet, del discorso e della prassi politica, dovrà misurarsi con la complessità dei fenomeni. Per Trump sarà ben difficile orchestrare un concerto tra la professata ammirazione per Putin, le resistenze di un partito repubblicano nella cui testa la Russia rimane un rivale strategico assoluto, le evidenze fornite dalle agenzie domestiche di intelligence sullo spionaggio russo, e gli interessi oggettivamente confliggenti di Washington e Mosca nei maggiori teatri di crisi belliche e di controllo delle risorse.
Se vi riuscirà sarà un gigante della Storia, ma ben altri hanno fallito prima di lui.

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