L'analisi

Il dilemma dell’Islam

21 gennaio 2015
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“Hai sporcato il mio nome e quello di migliaia di altre persone nell’Africa Occidentale. Hai attaccato la libertà e questo non posso perdonartelo”. Singolare quanto sincera la lettera aperta di un giovane studente maliano in Francia al suo tristemente celebre omonimo, uno dei massacratori di Parigi. Quello di Omar Coulibaly nelle pagine di ‘Le Monde’ è un pianto di rabbia: ricorda i massacri compiuti dai fanatici islamisti nel suo Paese. Si indigna. Ma lo fa senza quei distinguo che invece cominciano pericolosamente a fioccare qui e là, e che, il più delle volte involontariamente, attrezzano il patibolo della libertà. Anche alle nostre latitudini. Certo, la condanna degli attentati viene ribadita, ma sempre più spesso per schermirsi, quasi una doverosa premessa prima di rivelare il vero obiettivo: denunciare la blasfemia. “Un musulmano non può accettarlo”, tuonano l’imam di Lugano e il locale presidente della Lega dei Musulmani. Varrebbe, a mo’ di replica e di lezione, la reazione intelligente e posata dell’Imam di Alfortville, nella periferia parigina: “Non c’è nulla di blasfemo”, ha dichiarato ai media Abdelali Mamoun, indicando l’ultimo numero di ‘Charlie Hebdo’ che aveva in mano, aggiungendo che “i non musulmani hanno il diritto di disegnare il profeta se lo desiderano”. Esemplare la sua chiusa: “Ciò che è blasfemo sono l’estremismo e la stupidità rivendicati in nome dell’Islam. Lo dico con fermezza: i caricaturisti hanno il diritto di disegnare il profeta”. Parole coraggiose, da far impallidire i numerosi e talvolta pavidi commentatori, anche laici, che dopo lo sconcerto cominciano a adombrare la necessità di limitare la libertà d’espressione, quella che François Hollande aveva definito “non negoziabile”. Molto bene ha fatto il collega Aldo Sofia a stigmatizzare su queste pagine i “distinguo e quegli argomenti speciosi” avanzati da chi forse sente di avere in qualche modo la pistola puntata alla nuca. Siamo certi che una rinuncia seppur parziale ai principi della nostra legge e dei valori conquistati in Occidente dopo secoli di battaglie, sia di gradimento a quei milioni di musulmani che sperano in profonde riforme democratiche? Siamo convinti che le migliaia di persone che hanno urlato il loro odio antioccidentale nelle strade di Niamey o Istanbul rappresentino il mondo islamico? Varrebbe la pena, in questi giorni di dubbi, incertezze e paure, prestare particolare attenzione alle voci illuminate dell’Islam. Sono esili, si perdono nei rivoli dell’infomazione usa e getta, o nel baccano dei luoghi comuni, delle verità prêt-à-porter. Ma chiedono di essere ascoltate. Come quelle di uno studioso libanese che ci ricorda che non è vero, come invece si sente ripetere, che nella loro religione è da sempre vietata la rappresentazione figurativa del profeta: basterebbe volgere lo sguardo indietro nella storia per ammirare le miniature persiane o indiane. O quella, forte, quasi brutale del grande islamologo (lui stesso di fede islamica e di formazione sufi) Abdennour Bidar, che in una lettera aperta ai musulmani s’interroga su quel grande corpo malato nel quale si annidano sessismo, spirito liberticida, repressione, violenza. Perché – chiede – quel mostro (il terrorismo religioso) ha assunto il nostro volto? No, dice Bidar, il mostro del radicalismo non è esterno all’Islam. Per ritrovare la bellezza liberatoria e spirituale di questa religione – ribadisce – dobbiamo riflettere sulla nostra malattia, finire di accusare l’Occidente per tutti i nostri mali, e avviare una vasta riforma. Iniziando da una profonda autocritica. 

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