L'analisi

I nemici del ‘sultano’

30 giugno 2016
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Collezionando la drammatica media di un micidiale attentato al mese, la Turchia viene scossa dall’attacco più sanguinoso dall’inizio del 2016, con un impressionante numero di vittime. La scelta del bersaglio è altamente simbolica: l’aeroporto di Istanbul, crocevia del transito Occidente-Oriente, e, con i suoi 60 milioni di passeggeri all’anno, uno dei principali gangli dell’economia e del turismo nazionali, destinati dunque a subire un ulteriore contraccolpo, dopo la netta flessione già registrata a causa dell’instabilità del Paese e dei commando già sanguinosamente all’opera contro gruppi di turisti europei. Un’infinita serie di eventi traumatici. Un Paese che sempre più appare sotto assedio. In parte per responsabilità dello stesso presidente Erdogan, delle sue contorsioni e ambiguità, che hanno messo la Turchia nel mirino di molti nemici. Eppure, all’inizio del suo mandato, proprio il controverso capo dello Stato aveva coniato uno slogan promettente e rassicurante: la Turchia come “amica di tutti i suoi vicini”. Erano gli anni in cui la nazione guidata dal governo di matrice islamica nutriva l’ambizione di poter rappresentare una virtuosa contaminazione regionale: Islam più democrazia come motore degli interessi diplomatici ed economici di Ankara ai bordi della sconquassata area medio-orientale. L’entrata in scena del neo Califfato, e soprattutto le derive autoritarie e nazionaliste del ‘nuovo sultano’ hanno sconvolto quello schema. Oggi la Turchia non è più parte della soluzione, ma parte del problema. Dopo gli anni del miracolo economico, lo scivolone ipernazionalista di Erdogan ha esposto il Paese, mettendolo in una situazione di paradossale fragilità. Per bersaglio e modalità scelte (un aeroporto, i kamikaze, la pianificazione di tipo militare), l’attacco di Istanbul sembra attribuibile a mani e menti jihadiste, e frutto probabile di quello che Daesh (lo Stato Islamico) considera il tradimento di Ankara, che per anni ha aiutato sotto traccia gli ‘uomini in nero’: consegna di armi, libero passaggio dei ‘foreign fighters’, finanziamenti occulti ma consistenti attraverso l’acquisto del petrolio estratto nelle zone sotto il controllo di Al Baghdadi. Decisamente troppo per un baluardo della Nato, e in netto contrasto con la strategia dell’alleato Usa. Una politica dettata dalla volontà di contribuire alla caduta del regime di Assad in Siria, dall’ossessione di impedire il consolidamento della rivolta curda, e infine dalla preoccupazione di contrastare l’influenza iraniana nella regione. Costretto a cambiare linea dagli sviluppi della guerra e dalle pressioni occidentali, pur non derogando dagli attacchi ossessivi anti-curdi, Erdogan ha annunciato una serie di contro-manovre: dai bombardamenti sul Califfato alla riconciliazione con Washington, dalla ricucitura con Putin alla riapertura con Israele. Strategia tutt’altro che nitida e priva di ambiguità, che ha trasformato la Turchia in potenziale bersaglio di molti avversari. D’altra parte, è anche possibile che, se effettivamente etero-diretta da Al Baghdadi, la strage di Istanbul segnali non tanto la forza dello Stato Islamico, ma piuttosto una sua sanguinosa debolezza, a cui Daesh cerca di replicare con l’arma del terrore, visto che gli jihadisti sono ormai in difficoltà su tutti i fronti, dall’Iraq alla Siria alla Libia. Gli arretramenti sul terreno militare, le città perse, i numerosi segnali di un possibile sfaldamento confermano che Daesh non è imbattibile. Ma la sua probabile sconfitta segna anche un percorso disseminato di rischi di violente ritorsioni e rappresaglie. Velenosi colpi di coda. La carneficina di Istanbul è dunque un esplicito, inequivocabile messaggio anche all’Occidente.

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