L'analisi

E io rimango ‘Charlie’

19 gennaio 2015
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Per quello che ho sentito e letto nella settimana sulla “marcia repubblicana” di Parigi, ho voglia di dire: “Je suis Charlie”, e ci rimango. Infatti, su quei milioni in piazza, su quell’immediato e impetuoso bisogno di rispondere all’orrore magari più con l’emotività che con la ragione, sui valori della laicità materializzatasi massicciamente nelle piazze della “Ville Lumière”, avverto ormai troppi insidiosi distinguo, troppe prese di distanza, troppi argomenti speciosi. E allora, sì, ho voglia di rimanere “Charlie”. Sia chiaro, fin dalle prime ore della mattanza, ebbi modo di dire che non sono mai stato, nemmeno negli anni di attività a Parigi, un fan della rivista satirica finita, con le sue principali firme e altri collaboratori, nel fuoco e nella furia omicida dei fratelli Kouachi. Troppo greve, la sua satira; troppo insistentemente provocatoria, troppo inutilmente offensiva, troppo monocorde nel privilegiare non lo sberleffo intelligente ma il brutale colpo sotto la cintura. Un conto però è distanziarsi dalle vignette non solo urticanti ma perfino intolleranti e a volte volgari del giornale; un altro conto, pericoloso e specioso, è servirsene per svilire la reazione di una città, e di tante altre città europee, finite nel tritacarne di chi, dal giorno dopo, ha cominciato a parlare di manifestazioni non spontanee, manovrate, naïf. E comunque miopi, perché, appunto, non avrebbero tenuto conto di quanto “Charlie” avesse ferito i sentimenti religiosi del mondo musulmano, e non solo musulmano. Il discorso sui limiti della satira, come di qualsiasi espressione di confronto e di dissenso, è naturalmente legittimo, e necessario. Non è questo il punto. Il punto è che quel “Je suis Charlie” non venne e non viene esibito, da chi ne ha fatto la sua divisa, come condivisione dei suoi discutibili contenuti, del resto sconosciuti ai più, ma quale simbolo istintivo di autodifesa e di difesa della libertà repubblicana. Quindi della pacifica convivenza, pilastro di una democrazia, pur imperfetta e spesso sciaguratamente rappresentata, come confermano alcuni grossolani errori commessi dai governi occidentali: i silenzi davanti al gonfiarsi dell’islamofobia, la mancata integrazione delle minoranze musulmane (ma quanti hanno mai visto una banlieue francese?), le guerre sbagliate o imperiali in Medio Oriente, l’interessato legame con alleati arabi infidi, tutti preludi al crescere dei nuovi califfi del terrore. Allora, se è così, se alla poderosa marcia contro la paura si nega il senso primario che l’animava, se si fa di tutta un’erba un fascio, magari per poi surrettiziamente allargare il concetto dei limiti ad altri ambiti delicati (non solo le sensibilità religiose, ma magari anche quelle patriottiche, comunitarie, dell’interesse nazionale, di una stampa che si adegui per il bene presunto della collettività, e via citando), allora decido di restare “Charlie”. Ne ha fatte più la politica che la satira più sgangherata. Non mi piace che la necessaria discussione sull’“etica della responsabilità” venga imposta da un atto criminale che ha poco a che vedere con la fede religiosa; o che sia dettata da chi ascolta indifferente, silenzioso e complice le parole dell’odio e dell’insulto quotidiano; o pratica una sensibilità a geometria variabile. Non c’è bisogno di scomodare Voltaire o Max Weber per dire: proprio non mi piacevi, “Charlie Hebdo”; ma avevi, avevate, il diritto di vivere e di esprimervi. Per questo rimango “Charlie”.

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