L'analisi

Dittature o caos? 

23 febbraio 2015
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O la dittatura, o il caos. Per il Medio Oriente non vi sarebbe scampo. Si tratta di una convinzione sempre più diffusa. Anche in Occidente. Da non pochi, i dittatori vengono addirittura rimpianti (Muammar Gheddafi, Saddam Hussein), si spera che quelli al potere non siano spodestati (in primis, oggi, Bashar al-Assad), e non si guarda certo con dispiacere al ritorno di regimi liberticidi (il generale el-Sissi in Egitto). Se si osserva la tragica mappa dei conflitti, delle tragedie, delle pulizie etnico-religiose che sconvolgono la regione, non è facile dissentire da questa nostalgia di “raiss”, di leader totalitari, che hanno imposto ai loro popoli regimi violentemente antidemocratici, senza rispetto alcuno per i diritti umani. Ma regimi che, soprattutto agli occhi degli occidentali, hanno dato garanzie diverse: la stabilità politica regionale, un accesso sicuro e a basso costo delle fonti energetiche, la relativa sicurezza di Israele, una catena di capitali aperte alla collaborazione (seppur ambigua) con gli Stati Uniti e l’Europa, infine hanno alzato una diga contro l’islamismo politico (con l’eccezione dell’Iran sciita). In una manciata di anni, lo scenario è radicalmente mutato. Ovunque – lungo l’arco di crisi che va dall’Afghanistan alla Libia – ci sono lacerazioni inter-comunitarie, religiose, nazionali. Fino alla nascita di quello Stato Islamico che – per successive, rapide, spontanee affiliazioni – non è più riconducibile unicamente alle porzioni di territorio iracheno e siriano su cui è stato inizialmente issato lo stendardo nero del neocaliffo Abu Bakr al- Baghdadi, probabilmente il peggior prodotto – per ferocia e crudeltà – del nuovo disordine nell’area. Dunque, la domanda: non c’è alternativa alle dittature? E i rimpianti dittatori che per decenni avevano governato e soprattutto “congelato” le tante contraddizioni di quel mondo, avrebbero senz’altro garantito la tenuta del fragile mosaico a sud del Mediterraneo? Non è affatto certo. La traiettoria della Storia – che non può essere misurata su un brevissimo tratto – non è mai lineare, bensì faticosa, frastagliata, discontinua. Ora, nonostante il loro primo negativo esito, le “primavere arabe”, partite dal basso e dalla componente più giovane della società, dimostrarono anche la fragilità di regimi autoritari che sembravano inamovibili. Non è affatto detto che quella semina sia o sarà del tutto improduttiva. E non è nemmeno scontato che i regimi musulmani illiberali che oggi si stanno combattendo (sunniti contro sunniti, e sunniti contro sciiti) assicureranno, alla fine di uno scontro epocale, l’agognata stabilità. Le successive onde sismiche – alimentate da interessi strategici, appetiti economici, odi nuovi e antichi – potrebbero durare a lungo, disarticolare altre realtà nazionali, incoraggiare anche ulteriori interventi esterni. Infine, nel dibattito sul caos come unica alternativa alle satrapie mediorientali è facile dimenticare come per decenni l’Occidente che propone la sua democrazia come modello (addirittura da imporre con le armi, come pretese W. Bush fallendo) non ha mai incoraggiato e sostenuto le disperse forze laiche e liberali che cercavano uno spazio e un ruolo nelle società arabe. I dittatori “amici” dovevano rimanere impuniti e indisturbati. Spiazzati e disorientati nei pochissimi anni delle “primavere”, Stati Uniti ed Europa si sono facilmente arresi alla generale “restaurazione”. Mentre non è certo casuale che l’odierno, tragico disordine trovi alcuni dei suoi principali focolai proprio nei Paesi in cui l’Occidente è intervenuto militarmente (Iraq, Libia, Afghanistan) senza piani che ne evitassero il collasso. Abbattere dittatori, per poi invocarli. Non proprio una gran strategia.

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