L'analisi

Corbyn riporta il Labour a sinistra

15 settembre 2015
|

La più prevedibile delle vittorie per la conquista della leadership di un partito si trasformerà nella più scontata delle sconfitte elettorali. Il ritornello è questo: Jeremy Corbyn ha conquistato la guida del Labour Party (anche per mancanza di concorrenti credibili) ma trascinandolo su posizioni così radicali e di sinistra da condannarlo al disastro di una lunga e sterile opposizione in parlamento e di una certa débâcle alle prossime elezioni parlamentari. Il destino di quella che il ‘Guardian’ definisce “la più spettacolare svolta nella storia politica britannica” sembrerebbe dunque segnato. In negativo. Ma è poi così sicuro? Certo, il catalogo politico di Jeremy Corbin è un mix di antico-Labour e di ideologia rivisitata: anti-monarchico, anti-Nato, anti-nucleare, anti-austerità, anti-City, molto ecologista e molto pacifista; pronto a rinazionalizzare ferrovie, gas ed energia; deciso a ristabilire la pienezza di uno Stato sociale e dunque di un Welfare che in oltre un ventennio hanno subito tagli pesantissimi; determinato a superare quelli che definisce “grotteschi livelli di disuguaglianza e povertà”. Chi conosce l'inflessibile, testarda coerenza dell'ex “backbencher” (da 32 anni deputato senza mai aver ricoperto incarichi ministeriali) sostiene che difficilmente il nuovo leader annacquerà il suo programma in favore di un pragmatismo che lo renda più accettabile. Prima ancora che agli elettori socialdemocratici, agli stessi parlamentari del suo partito. Soltanto 20 deputati laburisti su 240 lo hanno infatti sostenuto nella corsa alla leadership. Pochi di loro si convertiranno al suo vangelo. Continueranno le velenose bordate degli ex tenori laburisti. È a rischio dunque la stessa tenuta del partito. Una scissione (nient'affatto inedita nella storia della socialdemocrazia inglese) è tutt'altro che da escludere. E dunque gongola il fronte conservatore del premier David Cameron, che le spara grosse parlando di minaccia alla sicurezza del paese e delle famiglie britanniche. Cosa ha dunque spinto la maggioranza dei partecipanti alle primarie (circa mezzo milione di votanti) a scegliere massicciamente Corbyn, e sbrigativamente liquidati come “populisti di sinistra”? Soprattutto la volontà di imprimere una forte discontinuità alla linea del partito, e dunque di ribellarsi all'establishment di un Labour senza bussola e soprattutto senza identità, inchiodato alla sola idea di dover essere uno schieramento di “centro estremo”, il partito del “di tutto un po’” e del “nulla di certo”, fluttuante fino all'inconsistenza, con una crisi identitaria che riguarda quasi tutte le socialdemocrazie europee. Per loro si trattava innanzitutto di seppellire questa eredità di Tony Blair (o del “thatcherismo senza la Thatcher”), che aveva definito “suicida” l'eventuale ascesa di Corbyn, e che si è subito lanciato in un'offensiva foriera di profonde lacerazioni interne. Del resto sembra imperfetto il paragone con gli spagnoli di Podemos e con Syiriza in Grecia. Quei due movimenti sono natii al di fuori dei partiti, si sono imposti demolendoli dall'esterno, mentre quello di Corbyn emerge dalle viscere di uno schieramento antico come il Labour e non ne auspica certo la rottamazione. Naturalmente la volontà espressa nelle primarie da quella che è una minoranza (e che tale resta nonostante l'immediata iscrizione di 15 mila nuovi iscritti sull'onda della “Corbynmania”) può essere assai lontana da quella della maggioranza degli elettori, anche laburisti. Si vedrà dove la traiettoria ideologica del nuovo leader porterà il partito, ed eventualmente un Regno Unito che nonostante la forte presa di Cameron deve affrontare scadenze vitali, dal referendum sulla permanenza nell'Unione europea, alla devolution che dovrebbe garantire forti dosi di autonomia alle varie componenti della Gran Bretagna. Il futuro di Corbyn dipenderà anche dagli sviluppi di un contesto europeo dove tutte le rivolte anti-sistema sono alimentate dalla crisi economica, dalle diseguaglianze e dagli squilibri sociali, dal timore che i flussi migratori siano un problema e non anche una risorsa, dalla bulimia e dalle responsabilità del capitalismo finanziario. Un ammonimento, quest'ultimo, lanciato persino dalle colonne dal “Financial Times”.

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔