L'analisi

America: altro che antipolitica!

15 novembre 2016
|

Una spaccatura lacerante (neri, ispanici, donne, redditi bassi, città, giovani che non hanno votato per Trump) e un futuro gonfio di incognite: i primi segnali già smentiscono il programma elettorale del candidato Trump. L’offensiva anti-establishment, considerata tra le ragioni principali del successo del magnate si è arenata ancor prima di iniziare. Chief of staff sarà Reince Priebus, capo del Partito repubblicano, mentre il posto di chief strategist è andato a Stephen Bannon, ex di Goldman Sachs, dirigente del sito estremista di (dis)informazione Breitbart News. Anche il team di transizione fotografa una logica antitetica a quella promessa. Vi troviamo in effetti oltre a 3 figli del nuovo presidente un manipolo dei tanto dileggiati “Washington insiders”, personalità di spicco del lobbismo e della finanza. A cominciare da Steven Mnuchin (pure Goldman Sachs), uno dei più influenti banchieri di Wall Street, a James Dimon ex Ceo della Morgan Chase, fino ai dirigenti della Encana Oil Corporation. Nel 2008 Barack Obama aveva depennato dalla lista delle candidature i lobbisti attivi nell’anno precedente. Ma i tempi sono decisamente cambiati. “Altro che distruggere l’establishment”, ha tuonato il repubblicano Peter Wehner, ex consigliere di Reagan e dei due presidenti Bush. Promosso il big business dunque, mentre si prospetta una riforma liberista della finanza simile a quella attuata da Ronald Reagan. Anche la short list dei papabili al governo conferisce alle promesse elettorali le fattezze di un enorme inganno: Newt Gingrich, ex presidente della Camera, in predicato per gli Esteri, è un interventista vecchia maniera, così come lo è Stephen Hadley, una delle menti della guerra in Iraq del 2003. Gli altri ministeri andranno a vecchie conoscenze dell’establishment politico più incattivito (i cosiddetti stay angry): tra i nomi più gettonati quelli del senatore ultraconservatore dell’Alabama Jeff Sessions e di Rudy Giuliani (Giustizia) di personalità molto divisive, come Ben Carson (Educazione), creazionista, uno dei rari repubblicani neri, mentre agli Interni spiccano i nomi dell’ineffabile Sarah Palin e dello sceriffo “più duro d’America”, Joe Arpaio. Anche se l’ipotesi di una politica commerciale più protezionistica appare realistica (ma invisa a molti repubblicani) è tuttora impossibile capire la direzione che assumerà questo Paese disunito, scelta dai “white voters” ma non dalla maggioranza degli elettori. Coerente con le promesse – purtroppo – è l’impegno ribadito a smantellare la politica ambientale costruita con enorme fatica da Obama: la demolizione è affidata a M. Ebell, lobbista legato al colosso ExxonMobil. In un clima avvelenato, con un crescendo di aggressioni, c’è chi – come il neoconservatore Robert Kagan – paventa il rischio di tracimazioni autoritarie e di un “fascismo alle porte dell’America”: paura della globalizzazione, identità nazionale indebolita, xenofobia, come cocktail esplosivo che accomuna gli anni 30 e il nostro presente. Visione apocalittica che non tutti però condividono a cominciare da Robert Paxton: pur individuando alcuni parallelismi con il passato, il grande studioso del fascismo si dice convinto che in questa America inquietante la democrazia e il rispetto delle istituzioni siano al momento ancora dei valori forti, condivisi anche dalla nuova classe dirigente.

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔