
Pubblichiamo l'editoriale apparso in Ticino7, allegato del sabato a laRegione.
Tita Carloni ci aveva fatto un libro (Pathopolis, Casagrande 2011), raccogliendo riflessioni sul territorio che cambia (in peggio) e il costruito. Ma prima di lui altri storici, architetti, pianificatori, urbanisti e amministratori (illuminati) hanno posto l’attenzione sulla pericolosità dello smantellamento e il conseguente impoverimento culturale e sociale dettato dalla cementificazione diffusa. E il riempimento del “vuoto” paesaggistico, che vuoto non è.
Qui, si badi bene, non parliamo di rifiuto del contemporaneo e dello sviluppo economico, oppure di pensieri romantici ottocenteschi perduti nella storia della civiltà. Il problema è una certa indisposizione (o mancanza di sensibilità, vedete voi) rispetto alla stratificazione storica del costruito. Che in parole povere significa lasciare che sia lo spazio urbano a raccontare ciò che siamo stati, e non solo scritti, disegni, fotografie, suoni e “immagini d’archivio”. Perché accanto al vetro e al cemento di oggi possano trovare spazio anche le tracce di ciò che tra Bedretto e Chiasso è avvenuto negli ultimi secoli, per rimanere nel nostro Cantone.
Oggi si piange sulle rovine del Mulino di Maroggia, come in passato si è pianto (a posteriori, come sempre) sul Castello di Trevano o sul Liberty che non c’è più. Senza parlare dell’archeologia industriale, ancora oggi presa di mira perché brutta, sporca e irrilevante. Poi ti scoppia un incendio e ti accorgi che il tuo vissuto e la tua memoria erano legati anche a quell’edificio in mattoni rossi. Peccato fosse l’ultimo dei Mohicani; morto lui, ecco il deserto (forse moderno, spesso la solita banalità).
© Ti-Press
Melide, maggio 2013. Un momento della performance visiva dell'artista Alex Dorici su quello che restava (dopo la sconsiderata demolizione) di Villa Branca.
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