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Curare o meno in cure intense chi non si vaccina

È dibattito in Svizzera sull'accesso alle terapie ai 'no vax'. Mattia Lepori: 'Si rischiano pericolose derive'. Anche per Carobbio non è la via giusta

Certificato sempre a portata di mano (Keystone)
6 settembre 2021
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Mentre i reparti di terapia intensiva di vari Cantoni (soprattutto Berna e Zurigo) stanno drammaticamente raggiungendo i propri limiti, il governo federale sta correndo ai ripari e sembra ora intenzionato ad annunciare mercoledì l’estensione dell’uso del certificato Covid agli spazi interni di bar, ristoranti, strutture culturali e per il tempo libero e alle manifestazioni al chiuso.

La priorità è far aumentare il tasso di vaccinati (lo è solo poco più della metà degli svizzeri) soprattutto tra gli over 40, che rischiano di ammalarsi gravemente, finire intubati, paralizzando così le cure intense e obbligando i curanti, nel peggiore dei casi, a decisioni davvero difficili: chi curare nei reparti più acuti e chi no?

Quello che in termine tecnico si chiama ‘triage’ è già tema di discussione in alcuni nosocomi elvetici. Avendo già rinviato le operazioni non urgenti per far posto ai nuovi malati Covid, se i ricoveri dovessero continuare a salire si rischia di dover fare dolorose scelte. Le direttive seguite dagli ospedali elvetici vengono emanate dall’Accademia svizzera delle scienze mediche, priorità va a chi ha maggiori possibilità di sopravvivenza. Chi non è vaccinato potrebbe venire penalizzato. A dirlo il medico responsabile per le vaccinazioni nel canton Berna, Gregor Kaczala, secondo cui si dovrà tenere conto del fatto che le chance dei non immunizzati saranno peggiori, quindi la vaccinazione sarebbe un criterio da prendere in considerazione.

Al riguardo non fa tanti giri di parole la direttrice zurighese della sanità, Natalie Rickli (Udc): ‘I no vax dovrebbero rinunciare alle cure intensive’. Per la consigliera di Stato “chi si oppone alla vaccinazione dovrebbe scrivere un testamento biologico e rinunciare alle cure intensive se si ammalasse di Covid”. Una via etica e praticabile, quella di dividere gli svizzeri, tra ‘bravi’ e ‘cattivi’?

 «Non vaccinarsi è un comportamento a rischio come altri (tabagismo, sedentarietà...) che non hanno mai limitato l'accesso al sistema sanitario»


Mattia Lepori, vice Capo dell’Area Medica EOC, ma anche membro della Commissione Etica dell’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche

«Ogni persona ha diritto a un accesso equo alle prestazioni sanitarie scientificamente riconosciute e questo indipendentemente dalla sua provenienza, estrazione sociale e convinzioni personali. Lo stabiliscono la Legge sanitaria, la LAMal e soprattutto il codice deontologico dei Medici Svizzeri. La scelta, libera in Svizzera, di vaccinarsi o meno, è da considerare una convinzione personale. Non esistono quindi a mio parere, i presupposti etici e forse nemmeno giuridici per fare dello stato vaccinale un criterio di accesso o meno alle cure mediche», risponde alla Regione il dottor Mattia Lepori. Questa la premessa del vicecapo dell’Area Medica Eoc, che precisa: «Chi sceglie di non vaccinarsi, esponendosi quindi a una maggiore probabilità di contagio e di sviluppo delle complicazioni gravi, assume un comportamento a rischio. Altri comportamenti a rischio, nocivi per la salute (tabagismo e sedentarietà per citarne solo due) non hanno mai fatto l’oggetto finora di una limitazione dell’accesso al sistema sanitario. Aprire questo dibattito comporta, a mio avviso, il forte rischio di pericolose derive», conclude il medico, che fa parte della Commissione Etica dell’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche.

«Penso sia più opportuno - oltre ad estendere l’uso del certificato - intensificare l'informazione, farla in modo mirato verso quelle persone che non si sono ancora vaccinate»

Anche per Marina Carobbio, medico e consigliera Ps agli Stati, il tema è molto delicato. «Scegliere chi può essere curato o meno nei reparti di terapia intensiva in base alla vaccinazione non mi sembra la direzione corretta», commenta alla Regione la deputata agli Stati che è anche medico. «Penso sia più opportuno – oltre ad estendere l’uso del certificato – intensificare l’informazione, farla in modo mirato verso quelle persone che non si sono ancora vaccinate o per le comunità straniere che sono più diffidenti, spingerli a vaccinarsi usando persone in cui si riconoscono», conclude. Infatti molti contagi riguardano persone che rientrano dalle vacanze e l’80% dei nuovi pazienti Covid nelle terapie intensive ha un “background migratorio”.


Marina Carobbio medico e deputata agli Stati

Berna verso l'estensione del certificato, Ueli Maurer e Gastrosuisse scettici

La decisione di estendere l’uso del certificato Covid-19 anche nei luoghi al chiuso sembra la direzione imboccata dal Consiglio federale e, secondo la SonntagsZeitung, sarebbe questione di giorni. Tutti i partiti, tranne l’Udc, sarebbero compatti dietro al governo. Una misura chiesta da molti cantoni e condivisa dal presidente della Conferenza dei direttori cantonali della sanità Lukas Engelberger, visto l’elevato (80%) tasso di occupazione delle cure intense svizzere. C’è anche chi non condivide l’idea di un ‘Covid pass’. GastroSuisse teme un tracollo: le perdite nel giro d’affari vengono stimate da gran parte dei ristoratori attorno al 30%. Scettico anche il ministro Udc, Ueli Maurer, che sul SonntagsBlick, afferma che sarebbe di difficile attuazione, mentre sarebbe opportuno un ridimensionamento del ruolo dello Stato. “Un certificato funziona bene per le grandi manifestazioni, ma qualora il personale di servizio dovesse rifiutarsi di servire un caffè a chi non ha il certificato, sarebbe un bordello”, ha precisato Maurer.

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