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I nuovi monopoli e i ‘nanetti di montagna’

Il professor Finger spiega lo strapotere delle piattaforme come Amazon, Google, Facebook, e perché a rischiare sono anche i lavoratori svizzeri

(Keystone)
19 luglio 2021
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La lotta europea ai monopoli passa dalla stessa villa di Fiesole nella quale Boccaccio scrisse il Decamerone. Qui si trovano gli economisti e i politici che cercano di fare qualcosa contro i colossi che col loro potere di mercato impongono regole, prezzi e perfino scelte di vita: non più i vecchi baroni dei trasporti e dell’energia, ma Amazon, Google, Uber, Facebook. Tra i pionieri di questa lotta un po’ donchisciottesca c’è Matthias Finger, docente emerito al Collegio di management della tecnologia del Politecnico di Losanna e autore, insieme al collega Juan Montero, del recentissimo ‘The Rise of the New Network Industries” (l’ascesa delle nuove industrie di rete), edito da Routledge. Con lui cerchiamo di capire da dove arriva lo strapotere di queste aziende e cosa fare per mitigarne le conseguenze negative, possibilmente senza rinunciare ai vantaggi del loro servizio.

Cominciamo dalle basi: perché nascono monopoli di questo tipo?

Monopoli di questo tipo – anche prima di big tech – emergono ogni volta che esiste un cosiddetto effetto di rete, quando cioè il valore di un servizio dipende dalla quantità di persone che esso è in grado di mettere in connessione. L’esempio tipico è quello della rete telefonica, che non avrebbe senso se comprendesse un solo telefono. Facebook, Google, Amazon hanno potere quasi monopolistico proprio per questo: raggiungono un’enorme massa critica di utenti e fornitori a livello globale, mettendo in connessione realtà altrimenti isolate e frammentarie. Noti bene: il loro business non è produrre alcunché, ma coordinare il massimo numero possibile di produttori e consumatori. Amazon ad esempio permette a qualsiasi editore di raggiungere un potenziale lettore, pur non producendo i libri che veicola. È su questo che incassa il suo margine.

Solo un servizio digitale su mille, però, diventa un gigante.

Nel coordinamento e nella messa in rete il vincitore prende tutto: basta guadagnare un vantaggio marginale sui concorrenti in termini di ‘taglia’ per divorare l’intero mercato, o quasi. A porre un confine a questa ipertrofia, in settori come i trasporti o l’energia, sono limiti fisici e politici, che invece non si applicano alle tecnologie digitali.

In cos’altro si differenzia un social network o un motore di ricerca dai monopoli di una volta?

La caratteristica davvero innovativa è ciò che nel nostro studio chiamiamo ‘effetto di rete dell’algoritmo’: la capacità cioè di raccogliere e analizzare i dati degli utenti per comprenderne le preferenze e vendere loro qualcosa, in un processo tanto più efficace quanto più numerosi sono i dati che entrano nel sistema. È qui che si annida il vero vantaggio strategico dei nuovi monopoli, quello su cui si concentra il grosso degli investimenti, con un potenziale destinato ad aumentare ulteriormente grazie a innovazioni tecnologiche quali l’internet delle cose. È con l’idea di raggiungere più utenti e accumularne le informazioni che all’inizio tutti questi servizi hanno investito nella conquista di utenti, anche a costo di perdere denaro nel breve termine. Raccolgono e vendono tutte le informazioni sulla nostra vita, e lì sta il loro valore di mercato, completamente sottratto a qualsiasi forma di antitrust.

Però garantiscono anche servizi sempre più efficienti: non dobbiamo più uscire di casa per un libro o un disco, o attendere per ore un taxi carissimo sotto la pioggia di Londra o New York.

Certo. La funzione vincente è appunto quella di riunire realtà un tempo frammentate – che si tratti di librerie, autisti, pizzaioli – e permettere al cliente un accesso rapido e agevole ai loro servizi, con un rapporto qualità/prezzo che almeno nella fase di conquista del mercato è imbattibile. Si tratta di strutture che si installano ‘in cima’ a mercati già esistenti per ottimizzarne il funzionamento. Così facendo diventano essenziali per quello stesso funzionamento, al punto di poter imporre agli utenti condizioni sempre più stringenti e prezzi sempre più cari.

Facebook però è gratis.

Non per gli inserzionisti. Ma tutto sommato neanche per gli utenti i cui dati vengono mercificati: non pagano nulla, è vero, ma vengono ‘venduti’ al miglior offerente.

È ormai diventato luogo comune il fatto che se un servizio è gratis, la merce siamo noi. La psicologa sociale Shoshana Zuboff parla di ‘capitalismo di sorveglianza’.

Sicuramente il possesso dei dati e la possibilità di sfuggire a qualsiasi controllo possono avere conseguenze sociali enormi. Lo vediamo nell’impatto che hanno i social media sulle elezioni di mezzo mondo, e più in generale nel fatto che possano conoscere sempre più aspetti e segreti delle nostre vite.

Quali sono le conseguenze per il resto dell’economia?

Anzitutto – e lo vedete bene anche voi media tradizionali – la centralizzazione dei profitti nelle mani di pochi. Un esempio tipico è proprio quello degli investimenti pubblicitari che non vanno più nelle tasche degli editori, ma in quelle dei social network o di Google. L’effetto di rete dei giornali – il bacino dei suoi lettori – è risibile rispetto a quello di chi permette a chiunque di trovarne gli articoli su un motore di ricerca, o di condividerli con gli amici sulla propria bacheca social. Il potere di mercato si sposta quindi verso le piattaforme.

Resta il fatto che molte aziende che fanno la pubblicità sui social o vendono un prodotto tramite Amazon restano padrone di quanto creano.

Certo, ma non possono rinunciare alla piattaforma se vogliono raggiungere un numero sufficiente di clienti. Nel frattempo, sono le piattaforme stesse a praticare nei loro confronti il ‘divide et impera’: messi in competizione tra loro, i fornitori del prodotto o del servizio finale sono costretti a garantire prezzi sempre più stracciati alla piattaforma, che di fatto ‘succhia’ i margini di guadagno. Un discorso che ormai vale per intere categorie, dall’editore al musicista, dall’autista al ristoratore.

Qui in Svizzera ha fatto parecchio rumore il caso della Dpd, azienda di consegne postali accusata di costringere i fattorini a turni e condizioni di lavoro massacranti.

Ecco, si tratta di un ottimo esempio per capire cosa succede quando le grandi piattaforme costringono i fornitori a una corsa al ribasso. Amazon ad esempio lo fa spesso, e per venirle incontro i servizi di consegna tendono a subappaltare il servizio ad aziendine più piccole per contenere i costi. Alla fine le conseguenze si riversano sui lavoratori, che si trovano sfruttati e mal pagati, ma chi è in cima alla piramide non deve rispondere a nessuno della sua condotta: in molti casi non è neppure il datore di lavoro di chi sta sfruttando. Alla fine, perfino imprese più ‘sociali’ come le poste nazionali devono adeguarsi alla concorrenza. Il colmo è che per questa condotta delle piattaforme non esiste nessun tipo di autorità di controllo, come è invece il caso per i monopoli tradizionali.

Diversi servizi – ad esempio Uber, che fa concorrenza ai taxi – rovesciano il discorso: a sentir loro permetterebbero a molte persone di lavorare in modo facile e flessibile, nei tempi e per le ore che desiderano. Così ognuno è più libero.

Libero di accollarsi due o tre diversi mestieri pur di arrivare a fine mese, libero di correre dalla mattina alla sera per salari sempre meno adeguati. In questo i nuovi monopolisti sono stati bravissimi a strumentalizzare la vecchia utopia di internet elaborata dagli hippy californiani: la promessa di un mondo decentralizzato, antiautoritario, dove ciascuno possa avere un’opportunità e una voce.

“Creeremo una civiltà della mente, più umana ed equa”, stava scritto nella famosa ‘Dichiarazione di indipendenza del cyberspazio’, anno Domini 1996.

Ma dietro a certe realtà ci sono manager e fondi di investimento che all’equità preferiscono la gerarchia e il profitto, che pervertono questa promessa libertaria e la riducono a una strategia di marketing.

Che fare per ripristinare un equilibrio competitivo e contenere i monopolisti?

Per ora credo che l’idea migliore sia quella seguita dall’Unione europea: leggi e controlli per ridare agli utenti il possesso dei loro dati, da quelli anagrafici alla lista dei loro acquisti. Così che un giorno sia possibile per loro trasferirli liberamente e senza costi espliciti o impliciti da una piattaforma all’altra, senza che quella precedente li conservi. Al contempo, occorre garantire l’interoperabilità tra piattaforme diverse e la parità di accesso alle infrastrutture lungo le quali si muovono i dati. È la linea seguita dall’Ue in diverse aree, dai trasporti alla finanza, dall’ambiente alla ricerca.

Non sarebbe più facile statalizzare tutto? Alcuni dicono che non si sarebbero dovuti privatizzare neppure i servizi postali, visto quel che sta succedendo.

Non facciamo confusione. Non sono le privatizzazioni del passato a creare questa nuova pressione, ma l’emergere di industrie tutte nuove, di natura diversa, che si sottraggono a ogni regolamentazione. È proprio una nuova regolamentazione che serve per evitarne gli eccessi, pur preservando i benefici delle innovazioni digitali che abbiamo tutti sotto gli occhi. Si tratta di tenere in mano pubblica solo quei servizi e infrastrutture non replicabili, un po’ come si fa per i binari ferroviari, dato che non avrebbe senso costruirne un nuovo paio per ogni concorrente. Questo, insieme alla protezione dei dati, non impone la nazionalizzazione totale di servizi peraltro internazionali. Non ha senso seguire questa strada anche dove abbiamo visto che la concorrenza funziona, semmai si tratta di impedire a pochi attori di soppiantarla.

Le regole sono difficili da applicare a business che operano su scala globale. Gli Stati Uniti ad esempio si oppongono, dicono che quello europeo è solo protezionismo.

Sicuramente il potere di queste aziende è così enorme che è difficile introdurre le riforme necessarie. Spero però che almeno su scala continentale si possa raggiungere la massa critica per ricondurle a più miti consigli: dopotutto, l’Europa è un enorme mercato.

L’incentivo a deviare, però, è fortissimo. Già a livello fiscale abbiamo visto Paesi come l’Irlanda smarcarsi dalle regole continentali pur di attirare il big tech. Un ‘giochino’ che fa da tempo anche la Svizzera.

Certo, e probabilmente continueremo a farlo fino a quando l’Unione europea non ci imporrà misure drastiche, come potrebbe accadere nel caso in cui smettesse di essere così divisa e irresoluta. Nel frattempo, si tratta comunque di un gioco pericoloso: il deterioramento dei diritti del lavoro, il dominio del mercato da parte di pochi, i conflitti sociali e politici che ne scaturiscono investono anche la Svizzera, ma non si risolvono su scala nazionale. È un’illusione pericolosa quella di poter fare da sé in un mondo di reti così ampie e coese: non possiamo giocare ancora ai nanetti di montagna che approfittano del denaro dei giganti, perché la conseguenza è un immiserimento che riguarda anche noi.

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