laR+ GIORNATA DELLA MEMORIA

‘A un passo dalla salvezza’, ma a volte non bastava

Gli ebrei in fuga dal Terzo Reich e l’ambigua politica svizzera: intervista a Silvana Calvo.

27 gennaio 2021
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“La memoria”, scriveva Eudora Welty, “può essere ripetutamente ferita”, ma “finché resta vulnerabile alla vita, vive per noi, e possiamo riconoscerle quanto dovuto”. L’americana non pensava all’Olocausto, a dirla tutta, ma sono parole che tornano in mente parlandone con la ticinese Silvana Calvo, autrice di opere quali ‘1938: anno infame’, ‘A un passo dalla salvezza’ e ‘L’informazione rifiutata’. Il suo interesse storico nasce da vecchie riviste pescate nei cassetti del padre, si intreccia con l’impegno civile – è stata presidente del Movimento contro il razzismo – e prende di petto le ambivalenze svizzere rispetto al Terzo Reich.

Nel suo saggio ‘A un passo dalla salvezza. La politica svizzera di respingimento degli ebrei durante le persecuzioni 1933-1945’, lei parte da un episodio emblematico: la lettera che una classe di ragazze quattordicenni di Rorschach (San Gallo) scrisse nel 1942 al Consiglio federale, implorandolo di non respingere “oltre il confine questi esseri infreddoliti e tremanti”.

Quell’episodio rivela aspetti e limiti dell’accoglienza svizzera. Intanto dimostra che se persino ragazzine delle medie erano al corrente del destino degli ebrei in Germania significava che era di dominio pubblico. Più tardi si è preferito dire che all’epoca “non si sapeva”. La lettera provocò molto imbarazzo a Palazzo Federale. L’allora Consigliere federale Eduard von Steiger, quello che aveva detto “la barca è piena”, trasformò la vicenda in un affare di Stato. Intendeva rispondere in modo duro: incriminare un docente e confutare gli argomenti delle ragazze con una lettera di rimprovero. Alla fine si astenne per motivi di convenienza.

Come cambiò la politica d’accoglienza nel corso del conflitto?

Le scelte sulla politica verso i profughi non maturavano negli ambienti politici e di governo bensì in seno alla ‘Divisione di Polizia’. È lì che si valutò il ‘pericolo’ che costoro avrebbero rappresentato per la nazione e si stabilì quale fosse ‘il bene per il paese’. Heinrich Rothmund diresse questo ufficio per 35 anni, dal 1919 al 1954. In questo periodo si sono avvicendati in governo molti Consiglieri federali che nel loro agire si sono basati più sulla sua ‘competenza’ in materia che non su loro proprie valutazioni. Il principio base è sempre stato quello di accogliere in ogni momento il minor numero di profughi possibile. È del 1933 la prima circolare che stabiliva che “i profughi per motivi razziali non sono rifugiati politici” e quindi andavano respinti perché non erano in pericolo in quanto ebrei. Questa frase si è puntualmente ripetuta in tutte le successive ordinanze, fino alla fine del 1943.

La politica d‘asilo dipese in gran parte dalla situazione internazionale, dall’andamento del conflitto e dagli umori della popolazione.

La prima ondata arrivò da Nord nel 1933, con l’ascesa al potere di Hitler. Ne arrivarono circa diecimila. A loro veniva accordato un permesso di tre mesi rinnovabile. Allora la situazione internazionale era ancora tranquilla ed era possibile spostarsi da un paese all’altro. La maggioranza lasciò presto la Svizzera.

La seconda ondata arrivò da Est nel 1938, dopo l’Anschluss austriaca. In quel momento all’orizzonte incombeva già lo spettro della guerra. Tutti i paesi si stavano chiudendo a riccio e non ne volevano sapere di profughi. Per tener fuori dai confini gli ebrei, la Svizzera introdusse dapprima il visto obbligatorio e in seguito negoziò con la Germania una “J” sul passaporto degli ebrei, per facilitare la loro identificazione alle frontiere e semplificare il respingimento. Quando scoppiò la guerra la Svizzera ospitava 5mila profughi ebrei.

Nel 1942, quando da Ovest arrivò la terza ondata, ormai l’Europa era in guerra da tre anni, la Germania aveva occupato gran parte dell’Europa e la Svizzera era circondata dai paesi dell’Asse. Quell’estate, nel Benelux e in Francia vi furono grandi retate di ebrei, come ad esempio quella del Velodromo d’Inverno, con conseguente deportazione in Polonia. All’arrivo dei primi profughi alle frontiere occidentali la Divisione di Polizia reagì immediatamente, mandando al governo rapporti allarmanti su una possibile incontenibile invasione. Il 13 agosto, il presidente della Confederazione Philipp Etter interruppe le sue vacanze per decretare il blocco delle frontiere specificando: “È d’obbligo che, in futuro, avvengano in misura maggiore respingimenti di profughi civili, anche se agli stranieri colpiti ne deriveranno svantaggi seri, pericoli per l’integrità fisica e la vita”.

Poi c’è la quarta e ultima fase, quella che tocca più da vicino il Ticino: l’afflusso di profughi da Sud – invero perlopiù ‘gentili’ – a partire dal 1943, man mano che le cose si mettono male per l’Asse mentre i fascisti, ormai di fatto ridotti a un protettorato della Wehrmacht, mettono in piedi la Repubblica di Salò.

Quando arrivò la quarta ondata da Sud, ormai si iniziava a capire chi alla fine avrebbe vinto la guerra. Dall’Italia arrivarono soprattutto militari che non intendevano arrendersi alla Wehrmacht. Il 30 novembre 1943, Mussolini emise un decreto che ordinava che tutti gli ebrei italiani e stranieri venissero arrestati e i loro beni confiscati. A quel punto per la Svizzera non fu più possibile argomentare che essi non erano in pericolo di vita a causa della loro razza. Ciò comportò un’attenuazione del rigore: vennero accolte le famiglie con bambini, anziani, ammalati eccetera. I respingimenti non cessarono del tutto. Vi è stata una disposizione ufficiosa alle guardie del confine meridionale che diceva: provate a respingerli, ma se proprio insistono lasciateli entrare.

Che ruolo ebbe la politica ticinese?

In Consiglio di Stato c’era Guglielmo Canevascini, un fervente antifascista: lo stesso uomo che più tardi, in barba alla neutralità si sarebbe recato in visita ufficiale alla Repubblica partigiana dell’Ossola (durata poco più di un mese, dal 10 settembre al 23 ottobre 1944, ndr). Ci fu uno sforzo di mitigare il rigore di Berna, nei limiti della poca autonomia concessa ai Cantoni sull’immigrazione. Nel corso di quest’ultima fase restò comunque un ampio margine d’arbitrio per le guardie di confine, come dimostra il respingimento di Liliana Segre e di suo padre, poi internati ad Auschwitz.

A determinare la politica di Berna era anche un antisemitismo pregresso?

Un antisemitismo endemico è da riscontrarsi un po’ in tutta Europa. Emerge bene in figure quali Rothmund, che si vantò di avere lottato per tutta la vita contro il pericolo di ‘giudaizzazione’ della Svizzera, ma non si sentiva antisemita perché “aveva degli amici ebrei”. Questa ambiguità era d’altronde condivisa da ampie parti della classe dirigente. I sentimenti della popolazione erano in genere tiepidi e spaziavano dall’antipatia alla solidarietà.

Ci furono esempi fulgidi d’impegno a favore dei profughi.

I ‘soccorritori’ permisero ad alcune migliaia di ebrei di entrare illegalmente in Svizzera. Il più conosciuto è Paul Grüninger che, come capo della polizia di San Gallo, falsificò e manipolò documenti pur di salvare delle vite, e fece perfino il passatore dall’Austria. Per questo nel 1939 perse il lavoro e visse in povertà gli anni che gli restavano. Non fu invece mai ‘beccato’ il diplomatico Ernest Prodolliet, che nell’agenzia consolare di Bregenz aggirò gli ordini rilasciando moltissimi visti d’entrata in Svizzera a ebrei e oppositori. In seguito fu trasferito ad Amsterdam, dove pure si diede da fare per aiutare gli ebrei.

È molto particolare anche la storia di Recha e Isaak Sternbuch.

Nel 1938 avevano creato a San Gallo una rete di soccorso per i profughi dall’Austra. Più tardi si trasferirono a Montreux dove fecero da ponte tra il sostegno finanziario degli ebrei americani e la partenza verso la salvezza di quelli europei, a volte per mete lontane quali Shanghai. Sul finire del conflitto fecero arrivare in Svizzera un intero treno dal lager di Theresienstadt, oggi in Repubblica ceca, con a bordo 1'200 prigionieri riscattati col denaro di rabbini americani.

Quanti furono, alla fine, i profughi accolti in Svizzera?

5mila prima dell’inizio della guerra e circa 21mila durante il conflitto, un po’ meno della metà di tutti i profughi accolti: dal 1° settembre 1939 al luglio del 1942 ne furono accolti solo 176; poi si procedette a ondate fino all’accoglienza dei tre convogli con i prigionieri liberati dietro riscatto. Il costo del sostentamento dei profughi fu a carico dell’ebraismo svizzero, un impegno pesante perché i profughi superavano il numero complessivo degli ebrei in Svizzera che era di 19mila, cifra che costituiva lo 0,5% per una popolazione di 4 milioni di abitanti; Oggi il loro numero è ancora lo più o meno lo stesso mentre gli abitanti sono più che raddoppiati.

La neutralità svizzera fece sì che dopo la guerra non avvenisse il rovesciamento politico visto nei Paesi confinanti. La continuità della classe dirigente influenzò la ‘narrazione’ di quanto accaduto?

Da bambina che frequentava le elementari nell’immediato Dopoguerra, posso dire che persisteva il mito patriottico consolidato durante il conflitto, si faceva di tutto per lucidare una rappresentazione eroica della Svizzera, basata su leggende come quella di Guglielmo Tell. A questo si univa l’idea di essere stati una luce in mezzo al buio del mondo per quanto riguarda l’aiuto umanitario a tutti coloro che ne avevano bisogno, indistintamente.

Pian piano gli ottoni si sono un po’ ossidati, però.

È stato un processo graduale e tutt’altro che compiuto. Negli anni ’50 ci fu il rapporto del professor Carl Ludwig che squarciò il velo su alcuni fatti poco lusinghieri, pur senza trarne conclusioni critiche. Poi ci fu l’accoglienza dei profughi anticomunisti ungheresi dopo la repressione di Budapest del ’56, una dimostrazione di generosità che fu utilizzata per ripristinare retroattivamente il mito della Svizzera salvatrice di ogni esule e quindi, per estensione, anche di chi era fuggito dall’Olocausto. Negli anni ’90 arrivarono le richieste di risarcimento americane per i fondi ebraici rimasti dormienti nelle banche confederate e lo sforzo di trasparenza compiuto dalla Commissione Bergier. Le conclusioni ebbero la sfortuna di arrivare dopo che la vertenza tra Berna e Washington era già stata chiusa: le coscienze si erano riassopite, e il dibattito sui risultati fece poca breccia nell’opinione pubblica.

Sorsero reazioni infastidite e una pubblicistica volta a rinverdire il mito svizzero, se non a sollevare il sospetto che la Commissione Bergier fosse in un certo senso antipatriottica.

La generazione dei nonni ha lasciato tracce anche in quella dei nipoti.

Che cosa rischiamo di sbagliare nel nostro modo di ripensare quegli anni?

Il primo errore è quello di leggere la storia partendo dalla fine, ossia dai lager. Invece è necessario partire dall’inizio per conoscere come passo dopo passo si sia giungi al tragico epilogo. Altrimenti lo schiacciamento prospettico rischia di penalizzare anche la nostra lettura del presente.

In che senso?

Un monito evidente che dovrebbe arrivare da quegli anni, al netto di parallelismi forzati, riguarda il nostro atteggiamento di fronte alla realtà di adesso. Poco dopo la guerra ho sentito persone normali e “perbene” dire tranquillamente che gli ebrei la loro sorte se l’erano cercata e meritata. Oggi sento persone normali e “perbene” dire che se i migranti annegano nel Mediterraneo è colpa loro. Il linguaggio tradisce certi parallelismi che dovrebbero preoccuparci. Avrà fatto caso al fatto che chi insiste per un’accoglienza umanitaria oggi viene tacciato di essere ‘buonista’. Ai tempi delle leggi razziali chi vi si opponeva – perfino tra gli stessi fascisti – era definito ‘pietista’. Insomma, ora come allora ha il sopravvento l’idea che la solidarietà sia uno spreco.

In una frase: cosa ci insegna la memoria dell’Olocausto?

Che alle camere a gas ci si arriva un po’ alla volta.

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