Mondiali di hockey

Andres Ambühl, il più amato

La leggenda grigionese si racconta e apre il personale libro della vita. "Non mi sono mai considerato un selvaggio"

Keystone
18 maggio 2019
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Giornata dedicata ai media. I giornalisti possono recarsi all’hotel della Nazionale ed effettuare dei lunghi tête-à-tête con i giocatori. Ogni membro rossocrociato ha a disposizione il suo tavolo dotato di acqua minerale e munito di rispettivo nome. Ma ad Andres Ambühl queste formalità non piacciono molto. “Ti fa niente se ci appartiamo qui?”. L’intervista si svolge in un angolo, in piedi appoggiati a un tavolino, stile bancone da bar, lontano da occhi indiscreti. Il tempo per il davosiano sembra essersi fermato. I capelli neri, rigorosamente disordinati e lunghi, spuntano da sotto il berretto, lo sguardo è sempre quello da scugnizzo. Eppure Bühli a settembre compirà 36 anni ed ha ormai superato le 100 partite a un Mondiale. “È una cifra speciale, non roba di tutti i giorni, non lo sapevo nemmeno. Me lo hanno detto nello spogliatoio poco prima della partita d’esordio contro l’Italia che sarebbe stata la mia centesima presenza. Nella mia carriera ho avuto la fortuna di non avere quasi mai gravi infortuni e questo mi ha aiutato”.

Ma qual è il segreto della sua longevità. “Da bambino lavoravo sempre nella stalla dei miei genitori, ogni giorno portavo il latte e camminavo molto sull’alpe. Ho decisamente approfittato di ciò, diventando presto robusto. Da piccolo non mi piaceva molto effettuare questi lavori da contadino, ora invece mi diverto. In estate aiuto spesso facendo ad esempio fieno, è una gioia poter aiutare i genitori e loro sono ovviamente felici di poter contare sul mio apporto”. Ambühl è ovviamente anche un amante degli animali. “Possiedo un cane, per me è quasi come un figlio. Gli animali ti mostrano la semplicità della vita. Quando arrivi a casa sono sempre contenti. ti mostrano la loro gioia. Noi umani invece a volte siamo di cattivo umore”.

Alzi la mano chi ha già sentito qualcuno parlar male dell’attaccante. Il capitano del Davos è uno dei personaggi più adorati del nostro hockey. Amato non solo dai grigionesi, ma anche dal resto delle tifoserie. “Onestamente non so il motivo, forse perché cerco di fare sempre il mio lavoro onestamente e perché sono una persona relativamente perbene e semplice”. Il suo marchio di fabbrica è il numero 10. “Lo porto perché il mio idolo era il russo Pavel Bure che giocava appunto con questo numero, era spettacolare come attaccante”. Hockey a Davos, specialmente ai tempi, era sinonimo di rock’n’roll, sgarri, lunghe nottate di bevute. “Non sono mai stato così estremo, non mi sono mai considerato un selvaggio, ma ogni tanto quando c’è l’occasione giusta ci sta fare festa. Oltretutto ora sono invecchiato e quindi non è più come una volta, adesso mi piace anche trascorrere qualche serata tranquilla in compagnia senza fare pazzie”.

La differenza tra i 18enni di oggi come Janis Moser e il 18enne Bühli? “Le porte per i giovani oggi sono più aperte, la Nhl non è un miraggio, tutto è più professionale. Ai miei tempi era forse tutto un po’ meno professionale, giocavamo e ci divertivamo. Nel complesso non rimpiango quasi nulla nella mia carriera, rifarei praticamente tutte le scelte. Mi spiace solo di non essere riuscito a sfondare Oltreoceano”.

Gli ultimi 12 mesi si sono rivelati strani e inconsueti per Andres. A incominciare dal dover rinunciare alla convocazione per il mondiale danese a causa di un infortunio. “È stato effettivamente speciale assistere alla cavalcata rossocrociata conclusa con la medaglia d’argento, mi faceva strano, ma ero contento per i ragazzi. Devo ammettere che però, essendo in vacanza, seguì le partite prevalentemente online, leggendo i risultati e i commenti”. E poi il terremoto in casa Davos, con la partenza di Del Curto e la mancata qualificazione ai playoff. “Solo in futuro vedremo se questo travagliato campionato ci avrà fatto imparare qualcosa, io lo spero, specialmente a livello mentale. Ovviamente è stato un grande cambiamento, era uno strano feeling  essere a Davos senza Del Curto”. Ormai Ambühl è l’ultimo rimasto della grande nidiata di campioni e figure storiche del Davos. I vari Forster, Von Arx, ecc. fanno parte del passato. “Logicamente adesso sento più responsabilità, ma è pure una bella sensazione, ti permette di crescere ulteriormente. E poi comunque ci sono altri elementi di esperienza, come Du Bois o Nygren. Sono davvero contento di poter ancora far parte della nuova imminente era con Wohlwend in qualità di allenatore, è una sfida stimolante”.

Lo stesso discorso vale in fondo pure un po’ per la Nazionale. Tanti suoi vecchi compagni di avventura sono ormai pensionati. Altri, ancora in attività, hanno invece dato l’addio alla scena internazionale già da tempo, come ad esempio Wick e Blum, entrambi più giovani di lui. Per Ambühl questa non è un’opzione. “Sino a quando il selezionatore riterrà di aver bisogno del sottoscritto risponderò presente. Non darò mai il mio ritiro dalla Nazionale rossocrociata. Per me è sempre un piacere e un onore indossare la maglia elvetica”.

Il suo futuro una volta che avrà appeso i pattini al chiodo? “Penso che resterò nel mondo dell’hockey. Non c’è nessuna materia dove io abbia un maggior sapere ed è la mia più grande passione, ma non ho ancora idee precise, non posso attualmente dire se mi piacerebbe fare l’allenatore, oppure lo scout o altre funzioni”.

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