Hockey

I costi, però, quelli restano

A Soletta è un voto senza storia: quattro stranieri erano, quattro rimarranno. Aeschlimann: 'Inutile zigzagare: se c'è una strategia o la si segue, oppure la si cambia'

15 novembre 2018
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Da una parte Berna, Davos e Losanna, dall’altra tutti gli altri. Compreso, quindi, quel Ginevra che sembrava dover essere antagonista del Lugano anche a Soletta, in occasione del voto sulla proposta di portare a sei il numero di stranieri, e non solo stasera, in campionato, sul ghiaccio della Cornèr Arena.

Invece, quella di ieri mattina è stata una votazione senza storia, perché – appunto – alla fine i favorevoli erano solo tre. «No, non sono sorpreso che il Servette abbia cambiato idea – dice il direttore amministrativo bianconero Jean-Jacques Aeschlimann –. Infatti alle Vernets sono successe diverse cose negli ultimi mesi, a cominciare dal passaggio di proprietà. Mentre questa proposta, rilanciata in tempi recenti dal Berna, che ha poi chiesto agli altri club la messa ai voti, ha una storia che parte da lontano».

Cioè? «Cioè tutto iniziò tempo fa, in occasione di un incontro tra i presidenti delle varie società, che decisero di mettere sul tavolo una quindicina di proposte in grado, almeno teoricamente, di partecipare a una riduzione dei costi. Tutte quelle misure nel frattempo sono state oggetto di analisi e fra le tante, l’unica veramente fattibile sul piano strategico, ma anche soltanto legale, era il passaggio da quattro stranieri a sei. Su quel tema, negli scorsi mesi ci fu un primo confronto, e se allora i club favorevoli erano in quattro, dopo che il Servette ha cambiato schieramento sono rimasti in tre. Ciò che trovo positivo, è comunque che alla fine di quel lungo dibattito tutti hanno potuto riflettere sul fatto che prima o poi si dovrà trovare un modo per contenere i costi».

Quello, forse, era l’unico merito della riforma del numero di stranieri in pista. «Se devo essere sincero, per me non ci sarebbe stato neppure quel beneficio. Almeno non nella pratica: è vero, ciò avrebbe messo pressione sui salari dei giocatori svizzeri, ma gli stranieri, quelli buoni, non vengono mica gratis. Poi, d’accordo, ci sono anche stranieri ‘low cost’, ma cosa te ne fai di un giocatore che non fa la differenza? Senza contare che già oggi, con il contingente di giocatori d’importazione bloccato a quattro, gran parte dei club dispone già di sei stranieri sotto contratto, per via degli infortuni. Quindi, qualora se ne potessero ingaggiare sei, non fatico a immaginare che le squadre arriverebbero a prenderne otto...».

Tuttavia, quello del numero chiuso è pur sempre solo un ‘gentlemen’s agreement’, e se proprio qualcuno vuole, potrebbe anche mettersi in testa di romperlo. «Ma questo non è nelle intenzioni di nessuno. Infatti stiamo parlando di un accordo che funziona: basta guardare sia ai risultati sportivi sia a quelli televisivi, o di marketing, o di presenze negli stadi. Cifre che confermano l’importante crescita del prodotto hockey in questi anni. E non dimentichiamo, poi, che la cifra dei quattro stranieri non è buttata lì a caso: rientra infatti nel piano strategico sottoposto ai club dalla Federazione, e che era stato approvato all’unanimità. Per come la vedo io, se prima avalli una strategia e poi cominci a zigzagare finisci col perdere in credibilità. A quel punto, trovo sia meglio cambiare impostazione».

Intanto, però, si continua a parlare della questione dei costi. Con un termine che spicca su tutti, quello del ‘salary cap’. «Già, ma da noi il tetto salariale è legalmente inapplicabile. Anche se lo fosse, ammettiamo che un club come il Berna venisse obbligato a ridurre sostanzialmente il suo monte stipendi: come farebbe a raggiungere la medesima cifra una società dalle modeste capacità economiche la cui squadra si trova in fondo alla classifica? Senza contare, poi, che già oggi ogni società il suo salary cap – fra virgolette – già ce l’ha, ed è il suo budget. Infatti c’è un bilancio da far quadrare, e se spendi più di ciò che incassi, be’, finisce che sparisci».

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