Hockey

Paolo Duca: 'Ho sempre fatto la scelta giusta, mai quella più comoda'. Con l'ex capitano dell'Ambrì ripercorriamo la sua lunga carriera.

(© Ti-Press / Samuel Golay)
12 maggio 2017
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Paolo Duca è ai Mondiali in qualità di commentatore tecnico della Rsi. «Mi trovo bene, l’hockey è il mio mondo. Qui ai Mondiali si mangia pane e disco su ghiaccio, c’è la possibilità di vedere gli allenamenti e si conoscono persone che ruotano attorno a questo pianeta. È dunque un’esperienza molto interessante e utile». Il 35enne è ormai un ex giocatore. «Non penso ancora di essermi reso conto di questo. Tutto è andato così velocemente e sono occupatissimo con il nuovo lavoro di direttore sportivo dell’Ambrì. C’è tanta carne al fuoco, sto lavorando senza sosta, la situazione si protrarrà sicuramente ancora per un bel po’ di tempo, anche se il tempo a disposizione in verità è poco».

Il nativo di Ascona ripercorre la sua lunga carriera. «L'apice? Non saprei, non ho ancora avuto il tempo di metabolizzare e di dare uno sguardo al passato. Anche perchè quando giocavo mettevo da parte questi pensieri, ti facevano perdere il focus sul presente e sul futuro,  le uniche cose che contano davvero. Non ho avuto grandi highlight, non ho vinto un titolo di campione svizzero. Ricordo però con piacere la Supercoppa europe conquistata con l’Ambrì ai danni del Magnitogorsk. Ero ai miei debutti con la maglia della prima squadra. Fu un momento davvero particolare per tutta la società».

Rimpianti non ce ne sono. «Ho sempre fatto la scelta giusta, mai quella più comoda, pure quando ho deciso di andare a Zurigo per cercare di vincere, come qualsiasi giovane ambizioso. La sfida durò poco meno di un anno, era arrivato il momento giusto per andare a Zugo. Anche la decisione di tornare in Leventina e di restarci sino alla fine è stata corretta. C’è pero qualcosa che forse farei diversamente. Quando ero ai Mondiali U18 a Füssen un certo Bill Gilligan (ndr leggendario coach del Berna) mi parlò e mi disse di sapere che volevo continuare la carriera scolastica al pari di quella sportiva. Mi offrì una possibilità nell’ Università del Massachusetts a Boston, dove era assistente allenatore, ma io volevo dapprima terminare la maturità, mi mancava un anno. Non conoscevo le strette regole universitarie, mi ero bruciato le mie carte perchè caso vuole che durante quella stagione venni promosso in prima squadra e giocai tutto il campionato da professionista. Avevo 18 anni e un contratto di formazione, ma le regole nordamericanee erano chiare. Avendo disputato un anno da professonista non avevo più accesso al programma».

Nella lunga carriera Paolo ha avuto al suo fianco tanti campioni. «Colui che mi ha impressionato di più? È dura… dammi un secondo, ci arrivo. Oleg Petrov! Era un giocatore incredibile, molto rapido, dotato di buone mani, aveva tanta fame e costanza d’agonismo. Davvero raro trovare uno come lui. Era un 'cavallo', ad Ambrì dominava. Mi ricordo inoltre il periodo trascorso assieme a Zugo. Oleg aveva già superato i 30 anni, io anticipavo l’arrivo agli allenamenti per iniziare prima il lavoro e fare più degli altri. Eppure quando arrivavo Petrov era già intento ad alzare pesi. Era una macchina, voleva sempre di più. Era sì focalizzato su sè stesso e magari non il prototipo del team-player, ma allo stesso tempo ti garantiva un apporto enorme».

L’allenatore più importante è stato invece Rostislav Cada. «È colui che mi ha plasmato e formato ad Ascona durante parecchie stagioni, e in seguito ad Ambrì. Ho sempre avuto un ottimo rapporto con lui. Cada era un tecnico molto esigente, dava tantissima importanza al duro lavoro, all’attitudine e alle qualità umane. Doti che prediligo anch’io. Sono cresciuto con questo stampo, un po’ per natura e carattere, un po’ grazie agli insegnamenti di Cada. In generale ho avuto ottimi rapporti con tutti i coach, evidentemente con alcuni ho avuto divergenze e idee differenti, ma è normale. Alla fine l’allenatore è il capo, decide lui. Comunque qualsiasi giocatore deve poter esprimere al momento, al posto e nel modo giusto la sua opinione al tecnico. Rautakallio, ad esempio, non mi faceva giocare, ma era onesto e trasparente, mi diceva il motivo e quindi sapevo... dove stavo di casa. In questo senso ho sempre avuto rapporti aperti con tutti gli allenatori».

Parecchi pure i portieri con cui 'Duke' ha condiviso lo spogliatoio. Stavolta la risposta è fulminea. «Il più forte? Eh beh, Ari Sulander! Cavoli, il finlandese era la calma in persona. Se tutto andava bene non ti accorgevi nemmeno di averlo in squadra. È un po’ come l’arbitro, quando non ti accorgi di lui è perchè arbitra bene. E poi, quando arrivavano i momenti decisivi, ti rendevi conto che Sulander era un muro. Non l’ho mai visto in difficoltà, non perdeva mai la compostezza, era un portiere di classe mondiale».

Paolo Duca nella sua carriera ha disputato anche un Mondiale, in Germania nel 2010. «A Mannheim fu un’esperienza fantastica. Dominammo il girone preliminare, battemmo lo squadrone canadese 4-1, la Cechia 3-2 e poi fummo sconfitti 1-0 nei quarti di finale dai locali. Effettuammo il doppio dei loro tiri, ma forse era scritto nel destino che avremmo dovuto perdere, colpimmo diversi pali. Era l’anno delle Olimpiadi di Vancouver, tanti rifutarono la convocazione e dunque molte seconde scelte, come il sottoscritto, ebbero la possibilità di partecipare al Mondiale. S’instaurò così una bellissima chimica, un grande spirito di gruppo, proprio perchè ogni elemento voleva sfruttare l’occasione».

Il numero 46 non ha mai avuto un vero rivale sul ghiaccio. «Ogni partita ha la sua storia e quando squilla la sirena finale tutto finisce e ci si dimentica di quello che è successo. Non mi è mai capitato di dire, stasera mi prendo la mia rivincita e a questo o a quello gliela faccio pagare. È vero, ci sono colleghi più duri di altri, ma non ho mai avuto un rapporti conflittuale con nessuno».

Eppure, quando si digita il suo nome su Youtube, appare il video della famosa bagarre con Scherwey di due anni or sono. Sono oltre 58'000 le visualizzazioni. Gli altri video in cui compare Duca, hanno tra i 50 e i mille 'clic'. Paolo ride di gusto nel sentire questi numeri. «Quella scena è rimasta impressa a parecchia gente: si è trattato di un episodio un po’ spettacolare, ecco perchè così tanti utenti hanno guardato la sequenza, ma solo perchè Tristan si è tagliato e quindi ha perso del sangue. Io ero convinto che Scherwey avesse toccato il nostro portiere, invece era stato il mio compagno di squadra Kobach a stendere Flückiger. Avrei dovuto bastonare Reto (fragorosa risata, ndr). Aggiungo inoltre che Scherwey mi piace molto come giocatore, è uno che mette tanta intensità e passione, come me. E in fin dei conti non è comunque accaduto nulla di drammatico, il giorno dopo il bernese era già di nuovo in pista. A me capitò di prendermi un pugno e spaccarmi la mandibola. Dovetti stare a riposo per 2 mesi».

Valascia esclusa, abbiamo voluto sapere da Duca in quale pista giocava più volentieri: «A Davos! Bellissime sensazioni. Mi è sempre piaciuta l’atmosfera, la pista strutturata in legno si sposa perfettamente con il paesaggio. Inoltre ammiro come la squadra grigionese sia stata gestita nell’ultimo ventennio e gradisco l’ambiente della Coppa Spengler. Evidentemente aggiungo pure i Derby alla Resega, qualcosa di speciale».

Paolo Duca avrebbe ritirato la maglia numero 46 di Paolo Duca? «Mmh, no non penso, ma è una domanda del cavolo», ribatte il sopracenerino ridendo. Il sottoscritto è convinto che a questa stregua anche vecchie glorie come Brenno Celio e Tiziano Gianini avrebbero meritato questo onore. «Certo, esatto», afferma 'Duke'. «Non ho deciso io di ritirare il numero 46 e nessuno mi ha mai chiesto il parere. È stata una decisione della dirigenza. Effettivamente ci sono altri uomini che hanno messo la mia stessa dedizione e passione per la maglia biancoblù se non addirittura di più, ad esempio i due citati prima. Logicamente il mio caso non è lampante come quello di un Seger, una vera icona che ha vinto tantissimi titoli con lo Zsc». In effetti il non ritiro della maglia numero 15 degli Zsc Lions sarebbe clamoroso. «Chiaro, fa piacere il ritiro della maglia. Qualcuno ha apprezzato quello che hai fatto per il club, ma non è neanche il motivo per cui svegliarsi la mattina e sorridere davanti allo specchio. Ha un’importanza relativa».

Il poliglotta continuerà a giocare a hockey per puro piacere nelle leghe inferiori? «No. Farei volentieri sport, ma credimi, attualmente ci sono tantissimi cantieri aperti, se vuoi te li elenco: il portiere, quattro stranieri, qualche svizzero, l’assistente allenatore, il preparatore fisico, il coach dei Ticino Rockets e il discorso inerente al  settore giovanile. Non ho il tempo materiale per dedicarmi ad altre attività. Ho una moglie e tre bambini piccoli, li vedo pochissimo e preferisco evidentemente tirare il fiato al loro fianco. Ma non mi lamento, sapevo a cosa andavo incontro accettando la carica di direttore sportivo dell’Ambrì e ne avevo discusso con i miei cari. Un domani, quando avremo risolto tutti i problemi e se dovessi riuscire a organizzarmi, mi piacerebbe rimettere i pattini e in ogni caso tornare a praticare attività fisiche. Quando hai praticato sport a livello agonistico per lungo tempo è importante tenersi in forma al fine di sentirsi bene con se stessi, avere energia e concentrazione. Il mio corpo è una macchina a cui ho chiesto tanto negli ultimi 20 anni. Ho fatto sacrifici, ho patito tanti infortuni. Se ti fermi di colpo, adagio adagio gli acciacchi saltano fuori. Vorrei evitare questi fastidi».

La chiacchierata, nella sala stampa dell'AccorHotels Arena di Parigi, va avanti da oltre 30', prima di congedare Duca un pensiero è rivolto a chi sarà il suo erede. «Ho già delle idee logicamente. La scelta del capitano va però un po’ condivisa con la società e quest’ultima deve avere una parola in proposito. Il capitano rappresenta il club anche verso l'esterno e non è solo a disposizione del coach sul ghaccio. Ma, alla fine della fiera, in un gruppo solitamente funziona così: dopo un po’ di tempo la figura del leader emerge automaticamente e dunque, tra virgolette, il capitano si sceglie da solo. Intravedo nella rosa attuale un papabile che ha queste qualità, ma è prematuro parlarne ora. Prima bisogna aspettare che la squadra sia al completa e che tutti si uniscano alla truppa. Alla fine della preparazione saremo pronti per eleggere il nuovo capitano». L’età conta? Un 22enne può essere questa figura? «Vuoi sapere se Mike Fora potrebbe essere il nuovo capitano? Potrebbe avere tutte le carte in regola. Ha un’attitudine incredibile, è un lottatore, ha già una buona esperienza. Io per l’età non ho preconcetti, conta relativamente. Tanti grandi capitani, penso a Sidney Crosby e Jonathan Toews, lo sono diventati in età giovanissima. Ma appunto, aspettiamo qualche mese e poi vedremo».

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